lunedì 30 aprile 2012

LA CASSAZIONE CENSURA I FUNZIONARI PUBBLICI INADEMPIENTI IN MATERIA DI LICENZE EDILIZIE

 IMPORTANTO ARTICOLO DI SANTOLOCI IN MERITO AGLI ATTI ILLEGITTIMI IN MATERIA EDILIZIA

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Lunedì 30 Aprile 2012 12:05
demolizioni 2Il fatto.  La Corte di Cassazione, sezione 3a Penale, si pronuncia in data 24.12.11 (dep. 12.01.12) con la sentenza n. 649/12 (Pres. Petti Est. Petti, Ric. PM) su un caso di atti illegittimi in materia edilizia su proposto da un Procuratore della Repubblica avverso una sentenza del Giudice dell'Udienza Preliminare il quale dichiarava non luogo a procedere nei confronti degli imputati. Le imputazioni sono significative ai fini del presente commento. Infatti i prevenuti dovevano rispondere in ordine al seguente impianto di accusa, sul quale si richiama l'attenzione del lettore con  particolare riferimento alle qualifiche dei singoli indagati ed in modo specifico (ai fini del presente commento) alla posizione ed alle qualifiche dei funzionari della pubblica amministrazione (e nel loro rapporto con gli altri indagati e con i reati rispettivamente ascritti, in quanto tale interrelazione è di primaria importanza a livello di principio generale):
a)    la contravvenzione di cui all'art. 44 lett c) del D.P.R. 380/2001, per avere, il ***, nella qualità di proprietario e di titolare del permesso di costruire, *** di progettista e direttore dei lavori, *** di responsabile del procedimento e cofirmatario del permesso di costruire n. *** del ***, edificato l'immobile oggetto del permesso in contrasto con le norme urbanistiche e segnatamente con l'art. 115 comma 5 NTA, il quale per la zona E5 del Comune di *** prescrive la possibilità di effettuare una modifica di destinazione d'uso per mq. 100,00 mentre quella effettuata è di mq. 168,65 ed in contrasto anche con la normativa statale che consente il cambio di destinazione d'uso per destinazioni omogenee senza permesso di costruire mentre, nella fattispecie, il piano terra era destinato ad annessi rustici (fienile, stalla, magazzino, ripostiglio, locale di sgombro e cucina con disimpegno e non a destinazione residenziale), nonché per avere proceduto anche alla demolizione di un annesso rustico ed un incremento dei piani abitabili e quindi della superficie utile e della cubatura mediante uno spostamento delle quote dei solai di calpestio con conseguente radicale cambiamento della facciata nella distribuzione delle aperture; con escavazione ed eliminazione della parte del terreno della " rupe " vicino al fabbricato per creare un parcheggio e con la realizzazione di un edificio con sagoma diversa dall'originaria; il tutto, in concorso con ***, ***, e *** nelle rispettive qualità e inoltre per avere consentito l'esecuzione di estesi movimenti di terra vietati ai sensi dell'art. 56 NTA, effettuati intorno all'immobile, che, in precedenza, si presentava addossato al pendio (terreno intorno alla ***), isolando il fabbricato dal terreno circostante ed abbassando il piano di campagna;
b)    la contravvenzione di cui all'art. 734 c.p, per avere il *** ed il ***, nelle rispettive qualifiche di cui al capo a), e ***, quale responsabile del Settore Urbanistico - paesaggistico, effettuato la costruzione di cui al capo a) con autorizzazione paesistica n. *** del ***, distruggendo ed alterando le bellezze naturali del luogo ed in particolare la *** in una zona vincolata in cui non esistono altre costruzioni ed in cui gli interventi devono servire solo per il recupero degli immobili esistenti;
c)    del reato p, e p. dall'art. 44 lett. c) D.P.R. 380/2001, per avere il *** titolare del permesso di costruire n. *** del 7***, ***, in qualità di direttore dei lavori e progettista, e *** di funzionario responsabile del procedimento, edificato l'immobile di cui al citato atto in maniera illegittima, in quanto eseguito in contrasto con l'art. 115 comma. 5 NTA del Comune di *** e con la normativa nazionale e regionale (***), perché effettuava una pretesa ristrutturazione filologica funzionale di un rudere per il quale non era consentita alcuna ristrutturazione (edilizia o urbanistica), ma solo una nuova costruzione, esclusa per la zona E5 (***)
d)     del reato p. e p. dall'art. 734 c.p., per avere *** e *** nella qualità di cui al punto c), e *** , quale responsabile del Settore Urbanistico-paesaggistico, effettuato, in zona vincolata, la costruzione di cui al capo c) con autorizzazione paesaggistica n. *** del ***, rilasciata dal Comune di ***, distruggendo ed alterando le bellezze naturali del luogo ed in particolare la *** in zona in cui non esistono altre costruzioni ed in cui gli interventi servono solo per il recupero degli immobili esistenti .
In *** con costruzione in atto il 12.1.2009.
e)    del reato p. e p. dall'art 323 c.p, perché, *** e ***, il primo nella qualità di responsabile del procedimento per il settore urbanistico e la seconda, per il settore paesaggistico, nello svolgimento delle loro funzioni, istruivano dette pratiche per procurare ai titolari del permesso di costruire un ingiusto vantaggio patrimoniale con varie violazioni di legge e di regolamento e di N.T.A già evidenziate nelle altre imputazioni , nonché per aver istruito la pratica edilizia diretta al rilascio del permesso di costruire , di cui è titolare la *** s.r.L., per la pretesa ricostruzione filologica di un rudere , senza effettuare alcuna indagine e senza richiedere idonea documentazione in parte prodotta in sede giudiziaria e per aver consentito, nella pratica edilizia nr. ***, l'esecuzione di notevoli movimenti di terra e scavi tali da intaccare la vegetazione ed il terreno prossimo alla ***, permettendo di effettuare l'isolamento dell'immobile e la creazione di un'area parcheggio in modo da modificare pure la viabilità. *** il 12.4.2007 per il p.d.c. n. *** ed il ***  per il p.d c. ***
A fondamento della decisione (poi totalmente smentita con questa decisione della Cassazione) il Giudice dell'Udienza Preliminare osservava:
a)    che, mentre il contrasto dei permessi di costruire con la normativa urbanistica avrebbe meritato un adeguato vaglio dibattimentale, alcune posizioni potevano già trovare adeguata definizione per la mancanza di colpa e più precisamente poteva essere definita la posizione dei proprietari e titolari dei permessi di costruire *** e ***, i quali avevano chiesto ed ottenuto il permesso di costruire dopo essersi rivolti a qualificati professionisti ed avevano fatto affidamento su un parere preventivo rilasciato dal Comune di *** nel 2002;
b)    che, quanto alla contravvenzione di cui all'articolo 734 c.p., la conformità dell'opera all'autorizzazione amministrativa elideva il disvalore dell'azione, posto che l'autorizzazione non risultava essere frutto di collusione;
c)    che, anche per il delitto di abuso d'ufficio, era insussistente l'elemento psicologico, il quale implica l'esistenza di un rapporto collusivo tra privato e pubblico ufficiale, rapporto collusivo che nel caso in esame non era stato prospettato.
Ricorreva dunque contro tale provvedimento (contestandone le motivazioni) per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale deducendo:
1)1a violazione dell'articolo 44 lettera c) del D.P.R. n 380 del 2001 perché non si era tenuto conto della decisione di questa sezione n 35390 del 2010 che, recependo l'interpretazione delle norme urbanistiche prospettate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di *** aveva ritenuto configurabile il reato;
2)la violazione degli artt. 20, 23, 29, 52,da 64 a 67 del d..R.R. n 380 del 2001 nonché della legge Regione Umbria n l del 2004 e del Regolamento Edilizio del Comune di ***: assume che è la legge a richiedere in materia urbanistica l'intervento di professionisti qualificati; di conseguenza l'incarico loro conferito dai proprietari non può essere utilizzato come elemento idoneo a dimostrare la buona fede dei titolari del permesso di costruire;
3) la violazione dell'articolo 734 c.p. perché il reato può essere integrato anche in presenza di un opera conforme all'autorizzazione amministrativa, perché le determinazioni dell'autorità amministrativa non vincolano il giudice penale e non è richiesta per la configurabilità del reato l'enormità dell'alterazione, che, peraltro, nella fattispecie era sussistente, posto che era stato eliminato una parte del terreno della *** per costruire un parcheggio;
4) la violazione dell'articolo 323 c.p. perché tale reato non può essere escluso solo perché non è stata ipotizzata la collusione tra il privato ed il pubblico ufficiale come sostenuto dal giudice dell'udienza preliminare, in quanto esso è configurabile pur in assenza di un accordo collusivo con il privato; mancando la contestazione della collusione, la prova del dolo intenzionale può desumersi dalla macroscopicità della violazione urbanistica, dai rapporti tra pubblico ufficiale ed il privato, dalla mancanza di adeguata istruzione della pratica, ecc;
5) violazione ed erronea applicazione degli artt 43 e 5 c.p. e mancanza ed illogicità della motivazione sul punto, in quanto, per escludere la colpa, non è sufficiente l'incarico conferito a professionisti qualificati, come ritenuto dal giudice dell'udienza preliminare, avuto anche riguardo al fatto che la ricostruzione di un" rudere" non è intervento di ristrutturazione, ma costituisce nuova costruzione e, quanto al delitto di abuso d'ufficio, l'inosservanza del dovere di compiere adeguata istruttoria diretta ad accertare la sussistenza delle condizioni richieste per il rilascio del permesso di costruire è elemento idoneo ad integrare il reato sotto il profilo soggettivo ed oggettivo.
Ad abundantiam il ricorrente rilevava che nella fattispecie non sarebbe neppure configurabile un errore scusabile, tema questo peraltro non trattato nella sentenza impugnata.
Resistevano al ricorso con memoria gli imputati **** chiedendone il rigetto.
Nella successiva motivazione in punto di diritto la Cassazione sancisce che "il ricorso va accolto perché fondato". E precisa nella motivazione che "per dimostrarne la fondatezza, non è neppure necessario procedere ad un esame analitico dei vari motivi addotti a sostegno dell'impugnazione potendo gli stessi essere esaminati globalmente , in quanto le incoerenze motivazionali e le violazioni di legge denunciate emergono, in maniera palese, dallo stesso contenuto della sentenza impugnata."
Rileva dunque il Collegio che nella fattispecie in esame il giudice dell'udienza preliminare "ha esordito affermando che, mentre la sussistenza del contrasto dei permessi di costruire con le norme urbanistiche avrebbe meritato un adeguato vaglio dibattimentale, alcune posizioni e segnatamente quelle dei due titolari del permesso di costruire potevano essere definite essendo palese la mancanza di colpa. In definitiva, secondo il giudice dell'udienza preliminare, nella fattispecie si poteva escludere    la colpa senza esaminare l'elemento oggettivo della contravvenzione. Il metodo utilizzato dal giudice per risolvere il problema rivela di per sé la propria incoerenza, giacché non si può escludere l'elemento psicologico del reato, sia esso dolo o colpa, se non si esamina prima la condotta. Invero, essendo l'elemento soggettivo del reato costituito da un fatto psichico interno all'agente, per ricostruirlo è necessario fare ricorso a massime di esperienza che consentano di desumerlo da elementi esterni direttamente accessibili e riscontrabili. Ora, poiché l'elemento soggettivo del reato si trasfonde nel fatto nel momento attuativo dello stesso e si manifesta nel fatto stesso, la base dell'accertamento va ravvisata nelle modalità della condotta e delle circostanze che la precedono accompagnano e seguono. Di conseguenza, salvo casi eccezionali, non ricorrenti nella fattispecie e difficilmente riscontrabili nella prassi giudiziaria , non si può affermare o escludere l'elemento soggettivo del reato se non si esamina prima quello oggettivo. Nell'abuso d'ufficio connesso al rilascio di un permesso edilizio ritenuto illegittimo e nei reati edilizi compiuti in esecuzione di tale permesso, uno degli elementi dai quali desumere l'intenzionalità del dolo o la colpa è costituito appunto dall'analisi del contrasto del permesso di costruire con la norma urbanistica nel senso che, quanto più è palese o macroscopico tale contrasto, tanto più è evidente la ricorrenza dell'elemento psicologico del reato.
Nella fattispecie l'impossibilità di escludere l'elemento psicologico del reato senza esaminare la condotta si desume dall'inconsistenza degli elementi che il giudice del merito ha addotto a sostegno della propria tesi.
Per dimostrare l'insussistenza della colpa nei reati edilizi il giudice ha richiamato due elementi: il primo è costituito dal fatto che i proprietari titolari del permesso di costruire si erano rivolti a professionisti qualificati per l'istruzione della pratica. Il secondo è costituito da un parere preventivo rilasciato dalla stessa pubblica amministrazione.
Orbene, il primo elemento ,come riconosciuto dagli stessi difensori, è palesemente inconsistente perché colui il quale intende realizzare una costruzione deve necessariamente rivolgersi a professionisti qualificati per la redazione del progetto e per l'assistenza tecnica nella realizzazione dell'opera. Anzi, sovente, è proprio il professionista che suggerisce all'interessato lo strumento per eludere i vincoli imposti dalla Legge.
Più suggestivo è il secondo elemento, giacché il parere preventivo rilasciato dalla dai documenti anzidetti, che il collegio ha potuto esaminare perché allegati al ricorso, emerge che la dante causa del **, nel 2002, assumendo che l'edificio di cui era proprietaria aveva allora (nel 2002) subito un crollo parziale, il quale comunque consentiva di individuare la sagoma e l'altezza dell'immobile, aveva chiesto di sapere se il manufatto poteva essere ricostruito con il recupero delle volumetrie originarie. Il dirigente del settore le aveva comunicato che, secondo la commissione edilizia, l'edificio poteva essere ricostruito nel rispetto della volumetria precedente con un eventuale incremento di essa in misura non superiore al 5 % senza però alcun ampliamento.
Quel parere è stato quindi rilasciato sulla premessa che si trattava di ricostruire un immobile già esistente e definito quanto alla sagoma e ai volumi, che aveva allora (nel 2002) subito un crollo parziale. Nell'esposizione del fatto contenuta nella memoria presentata nell'interesse del ***, si precisa che la ricostruzione era stata chiesta nel 2007 a seguito di un crollo parziale che l'edificio aveva subito per effetto del terremoto del 2007 che aveva interessato la regione Umbria. Orbene, a parte pure il rilievo che i costruttori non si sono adeguati al parere espresso nel 2002, posto che, stando almeno alla contestazione, la volumetria dell'immobile originario era stata incrementata in misura notevolmente superiore al 5% menzionato nel citato parere e che si era verificata, per altro verso, una notevole modificazione della destinazione d'uso immobile originario, si rileva che i costruttori, avendo appreso per mezzo del citato parere preventivo del 2002 che era possibile ricostruire un manufatto parzialmente crollato, nel rispetto della sagoma preesistente, nella domanda per il rilascio del permesso di costruire hanno lasciato intendere che quel manufatto era crollato nel 2007, in contrasto con quanto esposto nella richiesta di parere del 2002, allorché si era esposto che il crollo, peraltro parziale, era avvenuto nel 2002. Il giudice dell'udienza preliminare, non avendo esaminato la condotta, non è stato in grado di precisare né l'epoca del crollo né la situazione fattuale del manufatto al momento del rilascio del permesso di costruire. Invece tale accertamento era fondamentale al fine di affermare o escludere sia l'elemento oggettivo che soggettivo del reato perché occorreva accertare se si fosse in presenza di un immobile parzialmente diruto, per effetto di eventi straordinari, ma del quale era però possibile definite la sagoma ed il volume, o di un vero e proprio rudere del quale non era possibile ricostruire l'originaria consistenza.
Qualora fosse emerso che l'immobile era crollato per la vetustà del tempo e non per eventi straordinari e che si era fatto artificiosamente riferimento al crollo parziale ed alla reale possibilità di definire la consistenza originaria del manufatto per sostenere che trattavasi di una ristrutturazione, ancorché pesante, e non di una nuova costruzione, sarebbe stato evidente, non solo l'elemento soggettivo delle contravvenzioni, ma anche l'intenzionalità del dolo nel delitto di abuso d'ufficio, posto che ai pubblici ufficiali si era addebitato proprio il fatto di non avere istruito la pratica per non fare risultare la reale consistenza del manufatto da ricostruire.
Appare quindi evidente che nel caso in esame non si poteva escludere l'elemento soggettivo delle contravvenzioni edilizie, se non si fossero prima accertati la natura del contrasto dell'immobile con le norme urbanistiche ed il comportamento tenuto dai proprietari nella rappresentazione della situazione del manufatto prima della richiesta del permesso di costruire.
Per quanto concerne l'abuso d'ufficio, l'elemento soggettivo del reato è stato escluso solo perché non si era contestata la collusione tra i pubblici ufficiali ed i privati. In proposito si osserva che il dolo intenzionale del delitto di abuso d'ufficio può desumersi, non solo dal rapporto collusivo al quale ha fatto riferimento il giudice del merito, ma anche da una serie di altri indizi diversi dal rapporto collusivo, quali ad esempio: la natura dell'illegittimità dell'atto, i rapporti tra il pubblico ufficiale ed il privato , la mancanza di una doverosa istruttoria della pratica . Nel caso in esame nella contestazione si era, come già accennato, tra l'altro, addebitato ai pubblici ufficiali proprio di non avere svolto alcuna indagine per accertare la reale consistenza dell'immobile al momento della richiesta del permesso di costruire, indagine che nel caso in esame era doverosa per le considerazioni prima esposte.
Le stesse considerazioni valgono anche per il reato di cui all'articolo 734 c.p., perché anche in tal caso il giudice ha ritenuto la buona fede dei contravventori per il semplice fatto che agli stessi era stata rilasciato un'autorizzazione amministrativa per l'esecuzione delle opere senza porsi il problema della legittimità di tale autorizzazione e senza analizzare il comportamento delle parti. Se quell'autorizzazione fosse stata rilasciata sulla base di una premessa fattuale non rispondente alla realtà, in ordine all'effettiva consistenza dell'immobile diruto, sarebbe stata evidente la sua irrilevanza e la mala fede dei contravventori anche per tale reato.
Alla stregua delle considerazioni svolte la sentenza impugnata va annullata con rinvio al tribunale di *** per un nuovo esame. Al giudice del rinvio dovrà tenere conto dei principi dianzi esposti ossia del fatto che nel caso in esame non si può escludere l'elemento soggettivo dei reati se non si analizza prima il contestato contrasto con le norme urbanistiche e non si accertino i comportamenti tenuti dalle parti in relazione alla rappresentazione fattuale del manufatto da ricostruire ed in relazione all'omesso espletamento, da parte dei pubblici ufficiali, dell'istruttoria necessaria per    accertare la reale consistenza del manufatto da ristrutturare."
Dunque per tali motivi la Corte di Cassazione  "annulla la sentenza impugnata con rinvio al tribunale di *** per un nuovo esame".

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 Il nostro commento. Come appare evidente, la sentenza riporta una serie di principi di straordinario interesse ed importanza nel campo degli "Illeciti ambientali in bianco©"   e rappresenta un ulteriore decisivo contributo nel contrasto ai conseguenti "abusi edilizi in bianco"   -    che ormai  da tempo costituiscono una vera nuova realtà di degrado del territorio e che, essendo originati ed apparentemente "legittimati" da atti - appunto invece non legittimi di fatto - della pubblica amministrazione ormai si pongono in concorrenza dinamica e numerica con gli abusi edilizi brutali senza alcun atto abilitativo, costituendo peraltro (al contrario di questi ultimi che almeno solo palesi e facilmente individuabili) un  subdolo attacco alla integrità del territorio in quanto sono difficilmente percepibili essendo "coperti" e mascherati dalle carte autorizzatorie che in teoria a livello documentale presentano tale abuso come apparentemente regolare…
Il primo punto di interesse di principio di questo caso le imputazioni. Inviterei il lettore a valutare con attenzione l'articolato capo di accusa generale. Si noti che l'intreccio di ipotesi di reato è strettamente sinergico ed interconnesso tra una inscindibile corresponsabilità dinamica tra i privati ed i pubblici funzionari che nella logica unitaria delle singole imputazione selettive è chiaro che - secondo la Procura - hanno agito in perfetta sinergia ed unisono ed in pieno accordo operativo. Ciascuno nel proprio ruolo, interdipendente l'uno dall'altro. E la Procura con questo impianto di accusa azzera all'origine una antica strategia preventiva/difensiva da sempre ben spesa nel contesto delle prassi degli "Illeciti ambientali in bianco©", e cioè il principio del "divide ed impera" nel contesto del quale ognuno sostanzialmente scarica e si appoggia sull'altro per autoesonerarsi dalla responsabilità e richiamare, a catena, buona fede reciproca. Paradossalmente le illegittimità e le furbizie di azzerano e si giustificano a vicenda.  Ma qui il punto è stato colto, molto acutamente, anche dalla Corte di Cassazione la quale nella motivazione precisa che "Ad abundantiam il ricorrente (la Procura, ndr) rilevava che nella fattispecie non sarebbe neppure configurabile un errore scusabile, tema questo peraltro non trattato nella sentenza impugnata.".
Quindi questo è uno dei primi casi di "illeciti ambientali in bianco©" dove il tema della presunta "buona fede" soprattutto degli esecutori materiali non viene neppure preso in considerazioni nell'impianto generale di accusa grazie alla articolata impostazione dei capi di imputazione e dove la Cassazione poi - evidentemente in linea - non concede nessuno spiraglio di interazione.
Ma, tornando ai capi di imputazione, si noti come a fianco - ed in parallelo - con i reati per i privati esecutori materiali, viene rubricato non solo a carico di tali  privati diretti interessati ma anche a carico direttamente e personalmente dei pubblici funzionari il (gravissimo) reato di cui all'art. 734 Codice Penale di "distruzione o deturpamento di bellezze naturali" ed effettivamente "distruggendo ed alterando le bellezze naturali del luogo". Questo è un aspetto fondamentale di questo caso, dato che viene ribadito il concetto - basilare - in base al quale i pubblici funzionari che firmano questi atti illegittimi non vanno incontro solo ai reati propri connessi al ruolo (abuso di atti di ufficio) ma anche - e preliminarmente - ai reati "territoriali" della legislazione speciale a tutela del paesaggio in diretta unione con i privati che beneficiano della loro illegittima azione amministrativa. Tutti insieme - secondo questo impianto di accusa - ed ognuno nel proprio ruolo, e con il proprio diverso ma sinergico contributo, contribuiscono alla integrazione di tale reato. E tale impianto è stato perfettamente avallato dalla Corte di Cassazione. E può dunque essere considerato principio di diritto trasversale, al d là de caso concreto e dunque anche per altri casi futuri di "illeciti ambientali in bianco©".
Ma poi in detto impianto accusatorio compare per tali pubblici funzionari anche il reato (altrettanto grave) di cui all'art. 323  Codice Penale ("abuso di ufficio"). E la indicazione funzionale dei ruoli è precisa in quanto si rileva che tale capo di imputazione è redatto per il primo indagato "nella qualità di responsabile del procedimento per il settore urbanistico", per la seconda indagata "per il settore paesaggistico" ed entrambi "nello svolgimento delle loro funzioni, istruivano dette pratiche per procurare ai titolari del permesso di costruire un ingiusto vantaggio patrimoniale con varie violazioni di legge e di regolamento e di N.T.A". In poche righe una inquadratura articolata di ruoli, funzioni ed effetti conseguenti.

Ma poi va sottolineato un altro passaggio di tale imputazione a carico dei due pubblici funzionari: "senza effettuare alcuna indagine e senza richiedere idonea documentazione". E si tratta di un aspetto fondamentale. Da anni noi andiamo ripetendo, su queste pagine - ed in ogni sede seminariale e editoriale -  che a nostro avviso molte delle pratiche per il nulla-osta paesaggistico (e molte pratiche edilizie connesse) sono diventate solo un passaggio di carte formali presso diverse pubbliche amministrazioni interessate le quali - di fatto - non attivano poi alcuna istruttoria sul territorio e si limitano a mettere bolli e firme su realtà che nessun tecnico è andato mai a visionare. Ci sembra che questo caso confermi in modo diretto il nostro punto di vista, e che anzi nella elaborazione della Procura (poi confermata dalla Cassazione) questo aspetto - che noi riteniamo da sempre pregiudiziale agli "illeciti ambientali in bianco©" (perché ne costituisce il necessario omissivo presupposto) - è stato evidenziato e valorizzato (in negativo) a tal punto da diventare uno dei pilastri per le accuse ai pubblici funzionari in questione.
Dunque torniamo con l'occasione a ribadire la necessità, sempre a nostro modesto avviso, di una riflessione sul ruolo del nulla-osta paesaggistico e - soprattutto - sul ruolo conseguente e connesse che la P.A. competente ha rispetto a tale procedura che - senza istruttoria - non serve a nulla ed è solo un pezzo di carta in più con qualche (inutile) bollo e firma aggiuntivo da inserire come gadget senza senso nel carteggio per i lavori in via di legittimazione.
Altro aspetto meritevole di nota è il passaggio del ricorso della Procura (evidentemente poi condiviso dalla Cassazione che accoglie il ricorso stesso) laddove si precisa che "la violazione dell'articolo 734 c.p. perché il reato può essere integrato anche in presenza di un opera conforme all'autorizzazione amministrativa, perché le determinazioni dell'autorità amministrativa non vincolano il giudice penale e non è richiesta per la configurabilità del reato l'enormità dell'alterazione". Un altro principio di diritto trasversale ed esportabile in altri casi similari, che qui viene ben ribadito e che costituisce un tema storicamente posto alla base della teoria della disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi e da noi sempre sostenuto  e che ci sembra qui venga perfettamente ribadito dal PM e dalla Cassazione. Disapplicazione che - poi - in definitiva è la base giuridica presupposta sulla quale si è basato tutto il presente procedimento penale fin dalla prima fase ed oggi con la decisione della Cassazione. Se non ci fosse  stata la disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi da parte del PM in via iniziale, questo caso non sarebbe mai stato affrontato e non sarebbe mai giunto in Cassazione. Noi anche su questo tema da sempre abbiamo assunto una posizione chiara e netta, favorevole e di condivisione rispetto a tale procedura di disapplicazione sia in sede seminariale che editoriale , anche diventando a volte destinatari di critiche aspre. Ma ci sembra che l'orientamento ormai stabile della Cassazione conferma ancora una volta questa procedura e questa nostra storica posizione connessa. Ed principio di diritto - esposto e confermato in questo caso -  in base al quale "le determinazioni dell'autorità amministrativa non vincolano il giudice penale" sono proprio la base essenziale del principio della disapplicazione penale  degli atti amministrativi illegittimi.
Ancora un altro aspetto essenziale. Il PM nel suo ricorso propone una ulteriore argomentazione basilare, che poi è stata condivisa pienamente dalla Cassazione e diventa asse portante della stessa pronuncia della Suprema Corte che rimette gli atti al giudice di prime cure anche e soprattutto sulla base di tale assunto: "la violazione dell'articolo 323 c.p. perché tale reato non può essere escluso solo perché non è stata ipotizzata la collusione tra il privato ed il pubblico ufficiale come sostenuto dal giudice dell'udienza preliminare, in quanto esso è configurabile pur in assenza di un accordo collusivo con il privato; mancando la contestazione della collusione, la prova del dolo intenzionale può desumersi dalla macroscopicità della violazione urbanistica, dai rapporti tra pubblico ufficiale ed il privato, dalla mancanza di adeguata istruzione della pratica, ecc.". Ed appare evidente perché si tratta di aspetto essenziale. Infatti nelle sopra citate dinamiche difensive storiche contro gli ""illeciti ambientali in bianco©" un tema fondante è stato sempre ritenuto quello che se non viene privata la collusione tra il privato ed il pubblico funzionario non può scattare il reato di abuso di ufficio. E provare una collusione in questi settori è matematicamente impossibile. Pertanto: tana libera tutti! E l'abuso palese diventa così "legalizzato" anche per la presunta impotenza della disapplicazione penale dell'atto illegittimo che resterebbe così vanificata da questa conclusione presupposta. Ma così non è. La giurisprudenza storica della Corte di Cassazione lo ha sempre ribadito. Ed infatti da molti è stato riconosciuto il reato di abuso di ufficio in questo campo anche senza naturalmente la prova della collusione; se poi viene provata anche la collusione, allora la situazione si aggrava ulteriormente e scattano altre ipotesi delittuose.
Ma se la collusione non viene provata (come sempre accade perché di fatto è in questo campo una prova diabolica)  noi da sempre sosteniamo  che scatta comunque il reato di cui all'art. 323 Codice Penale che trova radici in altre presupposti dolosi. Ma su questo punto la motivazione della Corte di Cassazione è ancora più precisa: "Per quanto concerne l'abuso d'ufficio, l'elemento soggettivo del reato è stato escluso solo perché non si era contestata la collusione tra i pubblici ufficiali ed i privati. In proposito si osserva che il dolo intenzionale del delitto di abuso d'ufficio può desumersi, non solo dal rapporto collusivo al quale ha fatto riferimento il giudice del merito, ma anche da una serie di altri indizi diversi dal rapporto collusivo, quali ad esempio: la natura dell'illegittimità dell'atto, i rapporti tra il pubblico ufficiale ed il privato, la mancanza di una doverosa istruttoria della pratica . Nel caso in esame nella contestazione si era, come già accennato, tra l'altro, addebitato ai pubblici ufficiali proprio di non avere svolto alcuna indagine per accertare la reale consistenza dell'immobile al momento della richiesta del permesso di costruire, indagine che nel caso in esame era doverosa per le considerazioni prima esposte." Ed ancora: "Nell'abuso d'ufficio connesso al rilascio di un permesso edilizio ritenuto illegittimo e nei reati edilizi compiuti in esecuzione di tale permesso, uno degli elementi dai quali desumere l'intenzionalità del dolo o la colpa è costituito appunto dall'analisi del contrasto del permesso di costruire con la norma urbanistica nel senso che, quanto più è palese o macroscopico tale contrasto, tanto più è evidente la ricorrenza dell'elemento psicologico del reato." Una argomentazione logica e condivisibile, che spinge a verificare di volta in volta questi dati oggettivi dai quali trarre poi l'elemento presupposto del reato di abuso anche a livello oggettivo.
Ma quest'ultimo punto appare di interesse straordinario anche per gli operatori di polizia giudiziaria ambientale perché la motivazione della Cassazione si sofferma molto sull'esame dell'elemento soggettivo del reato; e dobbiamo ricordare che troppo spesso la PG ambientale sottovaluta e trascura questo elemento psicologico dell'autore nei reati ambientali che nei reati di violazioni amministrative con connesso abuso.
Noi da sempre, a costo di apparire a volte noiosi e ripetitivi o forse troppo teorici, ribadiamo in ogni sede editoriale  o seminariale presso le scuole di polizia che metà del lavoro operativo di un buon investigatore, per poi fornire una buona comunicazione di notizia di reato al PM, deve riguardare anche e soprattutto gli elementi soggettivi del reato e solo gli aspetti oggettivi sui quali la PG oggi - anche molto protesa verso la valorizzazione delle indagini scientifiche - dedica gran parte del suo tempo e del suo operato. Vediamo invece anche anche in questo caso gran parte delle motivazioni a tutti i livelli (dal giudice di primo grado, al ricorso del PM, alle tesi delle difese ed infine alla motivazione della Cassazione) si basano anche e soprattutto sull'elemento soggettivo. Se in questo tipo di processi la PG non fornisce dunque elementi validi e completi di valutazione anche per tale elemento, e si limita come prassi storica a documentare solo gli aspetti soggettivi (anche se in modo puntuale sotto il profilo tecnico e scientifico), la posizione del PM e le sue possibilità di interlocuzione appaiono senza dubbio prive di un elemento di valutazione essenziale. In questo caso, evidentemente, la completezza delle indagini ha consentito una piena conoscenza da parte del magistrato di tutti gli elementi del caso. E su questo punto - veramente essenziale - degli elementi soggettivi la Cassazione offre nella motivazione una ulteriore ed interessante chiave di lettura: "non si può escludere l'elemento psicologico del reato, sia esso dolo o colpa, se non si esamina prima la condotta. Invero, essendo l'elemento soggettivo del reato costituito da un fatto psichico interno all'agente, per ricostruirlo è necessario fare ricorso a massime di esperienza che consentano di desumerlo da elementi esterni direttamente accessibili e riscontrabili. Ora, poiché l'elemento soggettivo del reato si trasfonde nel fatto nel momento attuativo dello stesso e si manifesta nel fatto stesso, la base dell'accertamento va ravvisata nelle modalità della condotta e delle circostanze che la precedono accompagnano e seguono. Di conseguenza, salvo casi eccezionali, non ricorrenti nella fattispecie e difficilmente riscontrabili nella prassi giudiziaria, non si può affermare o escludere l'elemento soggettivo del reato se non si esamina prima quello oggettivo.".  Come si vede, i due elementi sono interconnessi, e secondo la Cassazione è necessario esaminare sia l'elemento oggettivo che - di conseguenza successiva - quello soggettivo. Un dato utile per tutta la PG ambientale.
Infine, appare evidente che questa sentenza costituisce un punto di riferimento significativo nella pur già antica e copiosa giurisprudenza nel settore delle illegittimità amministrative che tendono a "legalizzare" abusi edili ed anche paesaggistici. Si tratta ormai di una prassi piuttosto diffusa che vede collaudate radici nel "Codice Così Fan Tutti"  e che è materia talmente diffusa ed importante al punto che presso alcune scuole di polizia il contrasto a tale fenomeno è diventato vera materia didattica specialistica. Dunque, riteniamo che i principi esposti in questa pronuncia della Cassazione e dei quali sopra abbiamo cercato di riassumere e commentare alcuni aspetti fondamentali sono di estrema utilità per tutti coloro che operano in questo settore.
                                Maurizio Santoloci

ADDIO OLIMPICO? LA LAZIO POTREBBE GIOCARE LE COPPE A PALERMO

Lazio-Coni ancora rottura
Olimpico? No: a Palermo

ROMA, 30 aprile 2012

Trattative bloccate: licenza Uefa a rischio senza uno stadio in cui giocare e il presidente Lotito risolve segnalando il Barbera come impianto dei biancocelesti... per ora

Claudio Lotito e Gianni Petrucci fotografati in momenti di pace. Lapresse
Claudio Lotito e Gianni Petrucci fotografati in momenti di pace. Lapresse
Giorni pesantissimi in casa Lazio: il lunedì seguente alla sconfitta di Udine, condita dalle polemiche e dalle squalifiche, riesplode anche la querelle fra il presidente Claudio Lotito con il Coni per la gestione dello stadio Olimpico. Trattative non andate a buon fine a quattro ore dal termine, previsto per la mezzanotte del 30 aprile, per presentare il dossier all'Uefa propedeutico per l'ok alla partecipazione delle coppe europee. Champions League a rischio, ma a questo punto a prescindere anche dal terzo posto. Senza stadio, niente Europa per i biancocelesti. Ma Lotito ha risolto e alle 21 la Lazio ha presentato il dossier per la licenza Uefa segnalando come stadio di riferimento il Renzo Barbera di Palermo. L'anno scorso stessa solfa: Lotito presentò un dossier con lo stadio Artemio Franchi di Firenze come "casa" europea della Lazio. Il tutto in tempo per presentare il dossier, riprendere le trattative col Coni e poi modificare la richiesta cambiando il nome dello stadio. Ma la strada stavolta è in salita: l'anno scorso Lotito accusò il Coni di estorsione e per questo fu querelato dal Coni. Fra i vertici olimpici e il patron laziale, che stavano trattando da dieci giorni per l'affitto dell'Olimpico, è ormai guerra di nervi. "Più passa il tempo e più mi rendo conto che con certa gente è impossibile andare d'accordo", la dichiarazione gelida di Gianni Petrucci.

IL SESAMO UN CIBO DA HIT PARADE

ecentemente ho letto i risultati di uno studio (lo trovate qui) in base al quale il sesamo rientra tra gli alimenti più salutari che esistano in natura. Questo perché questi semini (che possono essere di colore biancastro o nero, a seconda che siano secchi o tostati) contengono proteine di ottima qualità (lo sanno bene i vegetariani). E poi molti sali minerali (calcio, ferrozinco, selenio, fosforo, potassio), vitamine (A, E, B6) e grassi insaturi. Mangiare sesamo regolarmente rinforza il sistema immunitario e rigenera le funzioni dell’organismo.
Da tenere in considerazione anche l’olio di sesamo, ricco di acidi grssi monoinsaturi e capace di modificare positavamente la reazione tra colesterolo buono (HDL) e cattivo (LDL) e per l’alto contenuto di lecitina. Può essere considerato un’ottima alternativa all’olio di oliva.
In Italia il sesamo è consumato soprattutto nel nostro meridione dove viene utilizzato per aromatizzare pane e dolci. Ma ormai ovunque sono diffuse delle barrette simili a un croccante (di solito a base di sesamo e miele) che sarebbero un’ottima merendina per i nostri figli, altro che il cibo-spazzatura a cui ormai sono tanto abituati! In alcuni negozi di prodotti naturali si trova anche quello che gli arabi chiamano Tahin o Tahina, una crema di sesamo in purezza, con cui si possono condire pane e pietanze. Nei negozi gestiti da arabi, si trova invece l’halawa tahinia, una dolce (MOLTO dolce), a base di pasta di sesamo e zucchero, ottimo servito con tè o caffè. Il sesamo, insieme ai ceci, è poi il costituente principale di un’ottima salsa tipica del Medio Oriente chiamata hummus. Il mitico chef Simone Rugiati utilizza invece il sesamo in abbinamento con il fritto in questa ricetta. Aspettiamo altri suggerimenti da voi per impiegare sempre più spesso il sesamo in cucina.
Se qualcuno si fosse chiesto leggendo l’inizio di questo post quali sono gli altri alimenti considerati “cibi della salute”, eccone l’elenco (di molti di questi abbiamo già parlato!):
aglio, broccoli e cavoli, carote, insalate di campo (cicoria, tarassaco, lattuga, radicchio), cipolla, erbe aromatiche e spezie, fagioli e legumi in generale, germe di grano, germogli, limone, mela, noci, olio extravergine di oliva, risosoia, thè verde, yogurt.

sabato 28 aprile 2012

67 ANNI OGGI VENIVA UCCISO BENITO MUSSOLINI - LA STORIA

riproponiamo la versione (le versioni) contenute in Wikipedia relative agli ultimi giorni del regime fascista, la fuga da Milano, la cattura e la morte di Benito Mussolini di cui oggi ricorre il 67^ ANNIVERSARIO

La fuga da Milano a Dongo

Milano


25 aprile 1945: Mussolini abbandona la prefettura di Milano.
Questa è l'ultima foto che ritrae Mussolini vivo.

In viola il percorso di Mussolini, in rosso tratteggiato le possibili diversioni stradali al confine svizzero; in giallo il percorso più corto per la Valtellina (ma per le condizioni della strada al tempo quello richiedente il maggior tempo di percorrenza e il rischioso attraversamento di un ponte sull'Adda)
Nel tentativo di sfuggire alla disfatta definitiva della Repubblica Sociale Italiana e sperando ancora in un sussulto dei suoi con la possibilità di trattare un accordo di resa a condizione, Mussolini abbandona il 17 aprile 1945 l'isolata sede di Palazzo Feltrinelli a Gargnano, sulla sponda occidentale del lago di Garda, e si trasferisce con tutto il suo governo a Milano, dove vi arriva la mattina seguente prendendo alloggio nella prefettura; il giorno precedente aveva discusso nell'ultimo consiglio dei ministri sulla possibile resistenza nel Ridotto della Valtellina[1].
Il 20 aprile concede nella prefettura di Milano, ove ormai è rinchiuso, un incontro al giornalista Gian Gaetano Cabella, direttore del giornale "Popolo di Alessandria", ed alla richiesta del giornalista di potergli rivolgere qualche domanda lo sorprende rispondendo: "intervista o testamento?". Fu l'ultima intervista rilasciata da Mussolini, che la rilesse, corresse e siglò il 22 aprile[2].
Sempre il 22 aprile, nel cortile della prefettura pronuncia l'ultimo discorso ad un centinaio di ufficiali della Guardia Repubblicana, chiuso con l'affermazione che "se la Patria è perduta è inutile vivere". La sera si incontra con Carlo Silvestri e gli consegna una dichiarazione per il comitato esecutivo del PSIUP[3] in cui chiede che la RSI finisca in mani repubblicane, non monarchiche, socialiste e non borghesi.
Il 23 aprile le truppe alleate entrano a Parma, e da Milano non sono più possibili le comunicazioni telefoniche con Cremona e Mantova, il giorno seguente Genova è liberata e il console tedesco Wolf si fa vivo per richiedere al ministro delle finanze Domenico Pellegrini il versamento anticipato di 10 milioni di lire, quota mensile per le spese di guerra del mese seguente. Il 25 aprile mattina gli operai iniziano ad occupare le fabbriche di Sesto San Giovanni alla periferia di Milano[1].
Nel pomeriggio del 25 aprile, con la mediazione del cardinale di Milano Ildefonso Schuster, si svolge nell'arcivescovado un incontro decisivo tra la delegazione fascista composta da Mussolini stesso, il sottosegretario Barracu, l'industriale Gian Riccardo Cella, il prefetto di Milano Mario Bassi, i ministri Zerbino e Graziani ed una delegazione del CLN composta dal generale Cadorna, dall'avvocato democratico-cristiano Marazza e dal rappresentante del partito d'azione Riccardo Lombardi. Sandro Pertini arriverà in ritardo a riunione conclusa. A Milano è in corso lo sciopero generale e l'ordine dell'insurrezione generale è imminente. Inoltre Mussolini apprende durante l'incontro che i tedeschi avevano già avviato trattative separate con il CLN: l'unica proposta che riceve dai suoi interlocutori è quindi la "resa incondizionata". Un accordo al momento sembra possibile, dato che vengono date garanzie per i fascisti e per i loro familiari[4], ma i repubblicani, anche se senza vie d'uscita, non vogliono essere i primi a firmare la resa per essere poi tacciati di tradimento[5]. Si riservano di dare una risposta entro un'ora lasciando l'arcivescovado e ritirandosi in prefettura, ma non ritorneranno più.
In serata, verso le ore 20, mentre i capi della resistenza, dopo aver atteso invano una risposta, danno l'ordine dell'insurrezione generale, Mussolini salutati gli ultimi fedeli[6], lascia Milano e parte in direzione di Como, assieme ai fascisti si trova il tenente Bizier con i suoi uomini, incaricato da Hitler di scortare Mussolini ovunque vada.[7].

Como

Durante il viaggio, il furgone di coda del convoglio, che trasportava valori e documenti riservatissimi e di particolare importanza politica e militare va in panne nei pressi di Garbagnate. L'equipaggio, tra cui Maria Righini cameriera personale di Mussolini, raggiunge Como con mezzi di fortuna. Vani risultano i tentativi di recupero effettuati nella notte. Il furgone sarà ritrovato la mattina seguente dai partigiani[8].
Alle 21:30 il capo del fascismo raggiunge la prefettura di Como. Il giorno precedente nella città comasca era arrivata anche la moglie Rachele con i figli Romano ed Anna Maria, ma Mussolini si rifiuta di incontrarli[9], limitandosi a scriver loro una lettera d'addio e a una telefonata con cui raccomanda alla moglie di portare i figli in Svizzera[10]. Durante la notte insonne, febbrili incontri con le autorità locali demoliscono la possibilità di una sosta prolungata in città, considerata indifendibile. Rodolfo Graziani consiglia di ritornare a Milano, la maggior parte, in particolar modo Guido Buffarini Guidi e Angelo Tarchi, spingono per entrare in Svizzera, anche in maniera illegale. Su indicazione del federale di Como Paolo Porta, si sceglie di proseguire verso Menaggio.
Verso le quattro del mattino del 26 aprile cercando invano di eludere la sorveglianza tedesca, il convoglio fascista abbandona precipitosamente Como muovendosi verso nord, costeggiando il lato occidentale del lago di Como lungo la strada regina e giungendo a Menaggio verso le cinque e trenta senza problemi.
L'edizione del 26 aprile del Corriere della Sera, esce dedicando la sua prima pagina all'insurrezione di Milano contro i nazifascisti e riportando, sempre nella stessa pagina, la notizia dell'abbandono di Milano col titolo: "Mussolini scompare da Milano dopo drammatiche tergiversazioni"[11].

Menaggio e Grandola

A Menaggio proseguono le discussioni e le riunioni sul da farsi, mentre continuano ad arrivare nel centro lariano importanti personalità fasciste e la notizia presto si diffonde. Rodolfo Graziani spinge per tornare indietro, non ascoltato si congeda e fa ritorno verso Como. Anche Alessandro Pavolini ritorna sui suoi passi, per raccogliere e far convergere su Menaggio i militari arrivati a Como; nel viaggio sarà attaccato da una formazione partigiana rimanendo lievemente ferito. Molti vogliono sconfinare in Svizzera, prendendo la via di Porlezza e di là a Lugano[12]. Si sceglie di allontanarsi da Menaggio e di temporeggiare. Alla partenza, improvvisa per cercare di liberarsi dell'oppressiva presenza della gendarmeria tedesca, il convoglio devia ad ovest in Val Menaggio, per giungere a Cardano, frazione del piccolo comune di Grandola ed Uniti, presso la caserma della 53a compagnia della Milizia Confinaria con sede all'albergo Miravalle. A Cardano Mussolini è raggiunto dall'amante Clara Petacci accompagnata dal fratello, e dalla scorta tedesca che aveva ricevuto l'ordine da Hitler di scortarlo verso la Germania. Qui apprende che a Chiavenna un aereo da trasporto sarebbe pronto al decollo per portarlo in salvo in Baviera[13]. A Grandola è raggiunto anche da Vezzalini, capo della provincia di Novara e dal maggiore Otto Kinsnatt della Waffen-SS, diretto superiore del tenente Fritz Birzer, proveniente dal lago di Garda[14]. In serata arriva la notizia che i ministri Guido Buffarini Guidi, Angelo Tarchi e il vicecommissario della prefettura di Como, Domenico Saletta, che tentavano l'espatrio forzando la dogana, sono stati arrestati proprio a Porlezza dai partigiani. Nel frattempo la radio annuncia che anche Milano è stata completamente liberata e che i responsabili della disfatta nazionale, trovati con le armi in mano saranno puniti con la pena di morte[15]. Nell'impossibilità di proseguire in quella direzione e constatata l'indifendibilità della piccola guarnigione da un eventuale attacco partigiano, si torna a Menaggio. Nella notte arriva Pavolini, senza i numerosi contingenti sperati, ma con soli sette o otto militi della GNR.

Dongo


Camion della colonna tedesca
Nella notte, insieme a Pavolini, giunge a Menaggio un convoglio militare tedesco in ritirata composto da trentotto autocarri e da circa duecento soldati della FlaK, la contraerea tedesca, al comando del capitano Hans Fallmeyer diretto a Merano attraverso il passo dello Stelvio. Mussolini con i gerarchi fascisti e le rispettive famiglie al seguito, decide di aggregarvisi. La colonna, lunga circa un chilometro alle cinque del mattino parte da Menaggio, ma alle sette, poco oltre Musso, viene fermata ad un posto di blocco delle Brigate Garibaldi; dopo una breve sparatoria, e in seguito a trattative, i tedeschi ottengono il permesso di poter proseguire a condizione che venga effettuata un'ispezione, e che siano consegnati tutti gli italiani presenti nel convoglio, nel sospetto che vi fosse il Duce con qualche gerarca in fuga. Mussolini, su consiglio del capo della sua scorta SS, il tenente Fritz Birzer, indossa un cappotto e un elmetto da sottufficiale della Wehrmacht, si finge ubriaco e sale sul camion numero 34 della Flak, occultandosi in fondo al pianale, ricoperto con una coperta di lana. A nessun altro italiano sarà concesso di tentare di seguire nascostamente Mussolini nel convoglio.
Intanto, durante l'attesa in cui si svolgevano le trattative, Ruggero Romano con il figlio Costantino, Ferdinando Mezzasoma, Paolo Zerbino, Augusto Liverani, Nicola Bombacci, Luigi Gatti, Ernesto Daquanno, Goffredo Coppola e Mario Nudi si consegnano al parroco don Enea Mainetti, nella canonica di Musso, che li affiderà ai partigiani. Il sacerdote venne a conoscenza della presenza di Mussolini nella colonna e ne diede comunicazione a "Pedro"[16]

Finalità del viaggio

Como rappresentava per Mussolini una meta che offriva diverse possibilità:
Como e la sponda occidentale del suo lago rappresentava una zona marginale relativamente protetta e con una presenza partigiana limitata. Qui era possibile trovare un rifugio sicuro ed appartato e nascondersi sino a quando gli Alleati, al loro arrivo, avrebbero scoperto il nascondiglio e quindi era possibile consegnarsi a loro con garanzie. Secondo la testimonianza del prefetto di Como Renato Celio, questa era l'obiettivo primario[17] o punto di passaggio per raggiungere la Valtellina dove già da alcune settimane Alessandro Pavolini prospettava di costituire un estremo baluardo di resistenza, il ridotto alpino repubblicano e dove erano affluiti tremila uomini del generale Onori ed erano attesi ancora mille uomini del maggiore Vanna. L'idea però era osteggiata oltre che dai vertici militari tedeschi, anche dal generale Niccolò Nicchiarelli comandante della GNR e dal ministro Rodolfo Graziani[18], o alternativamente sembrava possibile costituire nella città lariana un estremo baluardo di difesa, facendo convergere su di essa tutte le forze residue e resistere a oltranza per trattare poi “in extremis” con gli Alleati al loro arrivo[19]. Infatti a Como si concentrarono numerose formazioni provenienti dalle zone circostanti, condotte da Alessandro Pavolini. L'afflusso durò tutta notte e parte della mattinata. Alcune fonti parlano di quarantamila fascisti[20], mentre Giorgio Bocca riduce il numero dei militi a soli 6.000-7.000 uomini che, peraltro in giornata, si dispersero dopo che il Duce decise di abbandonarli, sciogliendo dalla fedeltà al giuramento i suoi fedeli e partendo di nascosto con i ministri alle 3 del mattino[21].
Infine la vicinanza con la Svizzera poteva offrire una estrema possibile via di fuga, anche se Mussolini aveva sempre detto di rifiutare questa possibilità, consapevole che le autorità svizzere, fin dall'estate 1944, avevano rifiutato la richiesta d'ingresso nel loro paese ai gerarchi fascisti ed ai loro familiari[19]. In Svizzera era possibile poi concretizzare trattative con diplomatici americani, attraverso l'intermediazione del console spagnolo a Berna, oppure come meta momentanea per poi raggiungere la Spagna[22]. Il Duce che giallo di livore e di paura tentava di varcare la frontiera svizzera è stato arrestato[23] è la prima immagine denigratoria che non sembra corrispondere alla verità. Le testimonianze degli accompagnatori italiani superstiti di quei giorni riferiscono concordemente del rifiuto di Mussolini ad espatriare[24].

La cattura e la detenzione

Dongo

Verso le ore 15 del 27 aprile, durante l'ispezione della colonna tedesca in piazza a Dongo, viene però riconosciuto dal partigiano Giuseppe Negri[25] e prontamente disarmato del mitra e di una pistola Glisenti, arrestato e preso in consegna dal vicecomandante di brigata Urbano Lazzaro "Bill" che lo accompagna nella sede comunale, dove gli viene sequestrata la borsa di cui era in possesso[26].
Tutti gli altri componenti al seguito vengono arrestati: si tratta di più di cinquanta[27] persone, più le mogli e i figli al seguito. Tra di essi la maggior parte dei membri del governo repubblicano, più alcune personalità politiche, militari e sociali accompagnati dai loro familiari. Qualcuno si consegna spontaneamente, altri tentano di comprarsi una possibilità di fuga offrendo ingenti somme e valori alla popolazione locale. Gli occupanti di un'autoblindo cercano di resistere ingaggiando una sparatoria, Pietro Corradori e Alessandro Pavolini fuggono buttandosi nel lago ma vengono ripresi e Pavolini rimane ferito. Il giorno seguente sedici di essi, tra gli esponenti più in vista del regime, saranno sommariamente fucilati sul lungolago di Dongo; tra gli altri, che rimangono agli arresti a Dongo e saranno trasferiti a Como, un'ulteriore decina di essi, in due notti successive, viene prelevata ed uccisa.[28].
Il fermo della colonna motorizzata tedesca e il susseguente arresto di Mussolini e del suo seguito era stato effettuato dai partigiani della 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici", comandata da Pier Luigi Bellini delle Stelle, nome di battaglia “Pedro”. Il suo commissario politico era Michele Moretti “Pietro Gatti”, vice commissario politico Urbano Lazzaro “Bill” e il capo di stato maggiore Luigi Canali “Capitano Neri”. Tra i gerarchi al seguito del dittatore, furono arrestati anche Francesco Maria Barracu, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alessandro Pavolini, Ministro segretario del PFR, Ferdinando Mezzasoma, Ministro della Cultura Popolare, Augusto Liverani, Ministro delle Comunicazioni, Ruggero Romano, Ministro dei Lavori Pubblici, Paolo Zerbino, Ministro dell'Interno. Fu arrestato anche Marcello Petacci, fratello di Claretta, che a bordo di un'Alfa Romeo 1500 recante bandiera spagnola, seguiva il convoglio con la convivente Zita Ritossa, i figli Benvenuto e Ferdinando e la sorella. Esibendo un falso passaporto diplomatico spagnolo si dichiarava estraneo al convoglio, spacciandosi per diplomatico spagnolo. Anche Clara era in possesso di un passaporto spagnolo intestato a Donna Carmen Sans Balsells[29]. Tra i fermati c'è anche la presunta figlia naturale del Duce, Elena Curti[30][31].
Nello stesso tempo, i prigionieri rimasti a Dongo, vengono interrogati e schedati dal "capitano Neri" e separati in tre gruppi distinti: Bombacci, Barracu, Utimpergher, Pavolini e Casalinuovo vengono anch'essi trasferiti a Germasino, i ministri rimangono rinchiusi nei locali del municipio e gli altri, autisti, impiegati, militari tra cui l'agente dei servizi segreti Rosario Boccadifuoco, distribuiti nell'ex caserma dei Carabinieri ed in case private. I Petacci, di cui non si era ancora scoperto la vera identità, vengono alloggiati all'albergo Dongo. La partigiana "Gianna", in collaborazione con l'impiegata comunale Bianca Bosisio, esegue l'inventario di tutti gli ingenti valori ed i beni sequestrati.

Decisioni del CLNAI a Milano

Nel tardo pomeriggio del 27 aprile il brigadiere Antonio Scappin "Carlo"[32] era riuscito a comunicare su ordine di "Pedro", telefonando attraverso una linea telefonica privata, la notizia dell'arresto a Milano. Una seconda comunicazione giunse alle 20.20, tramite fonogramma, con la quale si comunicava che Benito Mussolini si trovava sotto controllo a Germasino custodito da partigiani e Guardia di Finanza.
Già nella mattina del 25 aprile il CLNAI, riunitosi a Milano, aveva approvato un Decreto per l'amministrazione della giustizia ove, all’art. 5 si prevedeva che: “i membri del governo fascista e i gerarchi fascisti colpevoli di aver contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, d’aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del paese e di averlo condotto all’attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e, nei casi meno gravi con l’ergastolo”. Dello stesso tenore, il 19 aprile era stato emesso un Ultimatum "Sia ben chiaro per tutti che chi non si arrende sarà sterminato"[33].
Con il diffondersi della notizia, giungeva al comando del CLNAI dal quartiere generale OSS di Siena un telegramma[34] con la richiesta di affidamento al controllo delle forze delle Nazioni Unite di tutti i membri di governo della RSI, secondo la clausola numero 29 dell'armistizio lungo siglato a Malta da Eisenhower e dal maresciallo d'Italia Pietro Badoglio il 29 settembre 1943, che prevedeva espressamente che: "Benito Mussolini, i suoi principali associati fascisti e tutte le persone sospette di aver commesso delitti di guerra o reati analoghi, i cui nomi si trovino sugli elenchi che verranno comunicati dalle Nazioni Unite e che ora o in avvenire si trovino in territorio controllato dal Comando militare alleato o dal Governo italiano, saranno immediatamente arrestati e consegnati alle Forze delle Nazioni Unite". All'aeroporto di Bresso intanto si inviò un velivolo per prelevare il dittatore[35].
Tuttavia, non appena a conoscenza dell'arresto dell'ex capo del governo, il Comitato insurrezionale di Milano formato da Pertini, Valiani, Sereni e Luigi Longo, riunitosi alle ore 23.00 del giorno 27, decide di agire senza indugio e di inviare una missione a Como per procedere all'esecuzione di Mussolini; questo per aggirare il comportamento equivoco del generale Cadorna, diviso tra i doveri di comandante del CLN e di lealtà verso gli Alleati[36].
Walter Audisio, “colonnello Valerio”, ufficiale addetto al comando generale del CVL e Aldo Lampredi "Guido" ispettore del comando generale delle Brigate Garibaldi e uomo di fiducia di Luigi Longo vengono incaricati di eseguire la sentenza. Il generale Raffaele Cadorna, riluttante, per evitare che Mussolini cada nelle mani degli Alleati[37], rilascia il salvacondotto necessario[38]; Audisio, inoltre, viene munito di un secondo lasciapassare in lingua inglese, firmato dall'agente dell'OSS americano Emilio Daddario[39]. Contemporaneamente, peraltro, Cadorna provvedeva a contattare il tenente colonnello Sardagna[40] rappresentante del CVL a Como, al fine di predisporre misure per recuperare Mussolini e trasferirlo in luogo sicuro[41].
Intanto alle 3 del mattino successivo, il servizio radio partigiano trasmette agli alleati un fonogramma a scopo depistaggio, nel quale si asserisce l'impossibilità della consegna di Mussolini, in quanto già processato dal Tribunale popolare e fucilato "nello stesso luogo ove precedentemente fucilati da nazifascisti quindici patrioti"[42]. Ci si riferiva alla Strage di Piazzale Loreto del 10 agosto 1944.

Germasino

In attesa di decisioni in merito, e temendo per la sua incolumità, il comandante Bellini delle Stelle, intorno alle 18.30 del 27 aprile, trasferisce l'ex duce, insieme a Porta, nella caserma della Guardia di Finanza di Germasino, un paesino sopra Dongo. Prima di ritornare a Dongo "Pedro" riceve la richiesta da Mussolini di portare i saluti alla signora che accompagna il console spagnolo, senza ricevere indicazioni sulla sua vera identità. Dopo l'interrogatorio della signora, Bellini delle Stelle scopre che si tratta di Clara Petacci, che chede di essere ricongiunta all'amante: il comandante acconsente.
Se al momento dell'arresto Mussolini sembrava oramai privo di energie, col passare delle ore manifesta invece una certa serenità. Già a Dongo rispondeva volentieri alle domande che gli venivano rivolte, a Germasino si intrattiene con i suoi custodi discutendo su temi di politica, sulla guerra e sulla resistenza[43]. Prima di coricarsi alle 23.30, su richiesta dei partigiani di guardia, Mussolini sottoscrive questa dichiarazione: La 52a Brigata garibaldina mi ha catturato oggi, venerd' 27 aprile, sulla piazza di Dongo. Il trattamento usatomi durante e dopo la cattura è stato corretto. Mussolini[44]. All'1.00 viene svegliato per essere trasferito di nuovo in un posto ritenuto più sicuro e, per non essere riconosciuto, gli viene fasciato il capo. Di nuovo a Dongo, Mussolini è riunito alla Petacci, su richiesta di quest'ultima; poi, i due prigionieri sono fatti salire su due vetture, con a bordo, oltre ai due autisti, anche Pedro, il Capitano Neri, Gatti, la staffetta Giuseppina Tuissi "Gianna" e i giovani partigiani Guglielmo Cantoni "Sandrino Menefrego" e Giuseppe Frangi "Lino"[45] e condotti verso il basso lago.

Bonzanigo


Bonzanigo di Mezzegra, casa De Maria, in una immagine dell'epoca
La notizia del trasferimento a Germasino si era oramai diffusa rapidamente: i partigiani temevano un colpo di mano fascista per tentare di liberare Mussolini, o qualche tentativo da parte degli Alleati per impossessarsene. Si decise allora un ulteriore trasferimento in un luogo più distante. "Neri", d'accordo con "Pietro", è del parere di trasferire Mussolini in una baita a San Maurizio di Brunate, sopra Como. L'intenzione di "Pedro" è invece di porre in salvo Mussolini, essendo stato contattato dal tenente colonnello Sardagna, rappresentante del CVL a Como, su ordine del comandante generale Raffaele Cadorna, che aveva predisposto il traghettamento del prigioniero dal molo di Moltrasio sino alla villa dell'industriale Remo Cademartori a Blevio, sull'altra sponda del ramo comasco del Lario. Lungo la strada, tuttavia, dopo aver superato con difficoltà diciotto posti di blocco partigiani, ci si rende conto che è troppo rischioso procedere oltre e non è possibile raggiungere la meta prefissata[46]. "Pedro" riesce quindi a convincere il gruppo a fermarsi a Moltrasio ma, giunti sul molo, non viene rinvenuta nessuna imbarcazione pronta ad accoglierli.[41]. Intanto in lontananza, si odono echi di una nutrita sparatoria: si tratta di una prima avanguardia della 34a Divisione statunitense che sta entrando in città. Si decide quindi, su proposta di Canali, di ritornare sui propri passi e di trovare un sicuro rifugio alternativo. Intanto una decina di Jeep di un reparto agli ordini del Generale Bolty perlustrano la zona per cercare di assicurarsi la consegna di Mussolini[34].
Intorno alle ore 3.00 di notte del 28 aprile, Mussolini e la Petacci sono quindi fatti scendere dalle vetture ed alloggiare a Bonzanigo, una frazione di Mezzegra, presso la famiglia De Maria, conoscenti di lunga data del "capitano Neri" e di cui il capo partigiano si fida ciecamente[47]. Il piantonamento notturno è effettuato dai partigiani Cantoni e Frangi, "Pedro" con l'autista Dante Mastalli ritorna a Dongo, mentre "Neri", "Gianna" e "Pietro" con l'autista "Carletto Scassamacchine" si dirigono verso Como.

La morte

La versione storica - cronologia
L'Unità del 29 aprile 1945 riportò la notizia della morte di Mussolini senza ulteriori commenti Mussolini e i suoi accoliti giustiziati dai patrioti in nome del popolo. Il primo resoconto ufficiale, seppur sintetico, comparve sul quotidiano L'Unità nella sua edizione milanese il 30 aprile 1945, ripreso il 1º maggio nell'edizione nazionale. Portava il titolo "L'esecuzione di Mussolini" e non era firmato. In esso non si fanno nomi, ma si parla genericamente di esecutori.
Dal 18 novembre al 24 dicembre 1945, sempre sullo stesso quotidiano nell'edizione romana, in ventiquattro puntate, viene presentata una relazione più dettagliata. Gli articoli non sono firmati, ma sono introdotti da una breve presentazione di Luigi Longo. Qui l'esecutore viene chiamato con il solo nome di battaglia di colonnello Valerio. Questa versione è stata parzialmente ripubblicata il 25 aprile 1995.
L'identificazione del "Colonnello Valerio"con Walter Audisio è stata effettuata solo nel 1947, in un servizio di otto puntate dal sei al sedici marzo firmato da Alberto Rossi, il quotidiano romano Il Tempo e dal periodico neofascista Meridiano d'Italia.
Per questo motivo il 22 marzo, la segreteria del P.C.I. confermò con un comunicato che Valerio ed Audisio erano la stessa persona.
Il giorno dopo comparve su L'Unità una biografia di Walter Audisio dal titolo "Colui che fece giustizia per tutti. L'uomo Valerio".
Un circostanziato memoriale, in cui Audisio racconta in prima persona, venne pubblicato in sei puntate da L'Unità fra il venticinque ed il ventinove marzo.
Nel maggio 1972, su richiesta di Armando Cossutta, Aldo Lampredi Guido consegna alla dirigenza del P.C.I. una relazione riservata non destinata alla pubblicazione. Sarà però pubblicata da L'Unità il 26 gennaio 1996.
Nel 1975 Walter Audisio racconta nel libro postumo In nome del popolo italiano, curato dalla moglie Ernestina Ceriana, le vicende di cui è stato protagonista.
Michele Moretti "Pietro Gatti" rilascia la sua versione in diverse interviste e dichiarazioni. La testimonianza più rilevante è contenuta nel libro di Giusto Perretta, presidente dell'Istituto comasco per la storia del movimento di Liberazione, Dongo, 28 aprile 1945. La verità pubblicato nel 1997.

La versione storica


Il vialetto di Giulino di Mezzegra poco tempo dopo gli eventi
La Versione storica o ufficiale è la risultante delle testimonianze date sugli avvenimenti che riguardano l'uccisione di Mussolini e della Petacci rilasciate dai tre esecutori. Le versioni che hanno dato sono differenti tra loro, ma sostanzialmente concordano sulla modalità con cui fu eseguita, mentre divergono sugli atteggiamenti e le parole pronunciate[48].

La missione del colonnello "Valerio"

Alle 7 del mattino del 28 aprile, Valerio e Guido partirono dalla scuola di Viale Romagna di Milano, con il supporto di un plotone di quattordici partigiani,[49] agli ordini del comandante Alfredo Mordini "Riccardo", ispettore politico della 3ª Divisione Garibaldi-Lombardia "Aliotta", e di Orfeo Landini "Piero". Giunto a Como, Audisio esibisce il lasciapassare di Cadorna al nuovo prefetto Virginio Bertinelli e al colonnello Sardagna, assicurando loro che avrebbe trasferito i prigionieri a Como e, in un secondo momento, a Milano[50]. Trattenuto a Como fino alle 12.15 in cerca di un camion per il trasporto, Audisio si sposta a Dongo, dove giungerà alle 14.10. Lampredi e Mordini intanto, viste le difficoltà a reperire un mezzo di trasporto, abbandonano Audisio in prefettura e vanno a cercare aiuto nella sede comunista. Accompagnati da Mario Ferro e Giovanni Aglietto della federazione comasca del P.C.I. lasciano Como verso le 10 ed arrivano a Dongo poco dopo Audisio. Intanto giunsero da Como anche Oscar Sforni, segretario del CLN comasco e il maggiore Cosimo Maria De Angelis, responsabile militare del CLNAI per la zona di Como, inviati dal CLN comasco col compito di far rispettare le decisioni prese in mattinata e di trasportare Mussolini a Como. I due però, intralciando i propositi di "Valerio", saranno da questi fatti imprigionare e verranno rilasciati solo ad operazione conclusa.
A Dongo "Valerio" trova un ambiente difficile ed ostile, infatti i partigiani lariani temevano un colpo di mano dei fascisti per liberare i catturati. Si incontra con il comandante Pier Luigi Bellini delle Stelle comunicandogli di aver avuto l'ordine di fucilare Mussolini e gli altri prigionieri. "Pedro" però non intende collaborare acriticamente, protesta vivamente, ma dopo aver preso visione delle credenziali, e ritenendole sufficienti, è costretto ad ubbidire ad un ufficiale di grado superiore[51].

La presa in consegna di Mussolini e fucilazione

Alle 15.15 Walter Audisio "Valerio" invia "Pedro" a Germasino a prendere i prigionieri e, a sua insaputa, parte da Dongo con una Fiat 1100 nera in direzione di Bonzanigo, dove l'ex dittatore è tenuto prigioniero con la Petacci. Sono con lui Aldo Lampredi "Guido", Michele Moretti “Pietro”, che conosceva i carcerieri ed il luogo essendoci già stato la notte prima e l'autista Giovanni Battista Geninazza.
Moretti è armato di mitra francese MAS, calibro 7,65 lungo[52]; Lampredi è armato di pistola Beretta modello 1934, calibro 9 mm[53]. L’arma di Walter Audisio, un mitra Thompson, sarà successivamente riconsegnata al commissario politico della divisione partigiana dell’Oltrepò, Alberto Maria Cavallotti, senza essere stata utilizzata[54].
Le varie versioni dei fatti, fornite o riferite da Walter Audisio, pur differendo su particolari minori, descrivono la stessa meccanica dell'evento. L’ultima descrizione degli stessi, pubblicata postuma, a cura della moglie di Audisio[55], è sostanzialmente confermata dal memoriale di Aldo Lampredi, consegnato nel 1972 e pubblicato su "L'Unità" nel 1996.

Giulino di Mezzegra, il cancello di villa Belmonte, sul muretto la croce indicante il luogo dove vennero uccisi Benito Mussolini e Clara Petacci.
Giunti a casa De Maria, sempre sorvegliata da "Sandrino" e "Lino", sollecitano Mussolini, trovato stanco e dimesso, e la Petacci a lasciare rapidamente l'abitazione. In strada i prigionieri sono fatti sedere nei sedili posteriori della vettura e vengono accompagnati nel luogo precedentemente scelto per l'esecuzione poco distante[56]: si tratta di un angusto vialetto, via XXIV Maggio a Giulino di Mezzegra, in posizione assai riparata davanti a Villa Belmonte, una graziosa residenza di villeggiatura. Qui i due sono obbligati a scendere.
Moretti e Lampredi sono inviati a bloccare la strada nelle due direzioni, mentre a Mussolini viene fatto cenno di dirigersi verso il cancello. Sembra smarrito, Claretta piange. "Valerio" sospinge Mussolini verso l'inferriata e pronuncia la sentenza: "Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano" e, rivolgendosi a Claretta che si aggrappava all'amante: "Togliti di lì se non vuoi morire anche tu". Tenta di procedere nell’esecuzione ma il suo mitra si inceppa; Lampredi si avvicina, estrae la sua pistola, ma anche da questa il colpo non parte, chiama allora Moretti che, di corsa, gli porta il suo mitra. Con tale arma il "colonnello Valerio" scarica una raffica mortale di cinque colpi sull’ex capo del fascismo. La Petacci, postasi improvvisamente sulla traiettoria del mitra, è colpita ed uccisa per errore. Viene poi inferto un colpo di grazia al cuore di Mussolini con la pistola[57][58]. Sul luogo dell’esecuzione furono poi rinvenuti proiettili calibro 7,65, compatibili con quelli del mitra francese del Moretti[58]. Sono le ore 16.10 del giorno 28 aprile 1945.
L'edizione locale dell'Unità, il giorno seguente, riporta il fatto con questo titolo a tutta pagina: "Mussolini e i suoi accoliti giustiziati dai patrioti nel nome del popolo"[59]; mentre l'edizione nazionale del 1º maggio riporta in prima pagina un'intervista col partigiano - di cui non viene fatto il nome - che "ha giustiziato il Duce", intitolata: "Da una distanza di 3 passi sparai 5 colpi a Mussolini".

Walter Audisio


Ricostruzione dell'uccisione di Benito Mussolini. Un uomo indica un punto preciso del muro dove avvenne la fucilazione a Giulino di Mezzegra, ottobre 1945, foto di Federico Patellani
Walter Audisio era al tempo ufficiale addetto al Comando generale delle Brigate d'assalto Garibaldi e a quello del CVL. Essendo noto solo negli ambienti di militanza e non avendo mai dato modo di parlare di sé, non fu inizialmente identificato come l'uccisore di Mussolini: le cronache infatti, riferivano che l'ex duce era stato fucilato dal "colonnello Valerio", senza conoscerne l’esatta identità. La sua figura emerse direttamente, con riferimento a questi fatti, solo nel marzo 1947, quando il quotidiano "L'Unità", organo del PCI, di cui Audisio fu poi deputato, diede notizia del suo coinvolgimento.
Nel volume "In nome del popolo italiano", uscito postumo, Audisio sostenne che le decisioni prese nel primo pomeriggio del 28 aprile a Dongo, nell'incontro con il comandante della 52ª Brigata, Bellini delle Stelle, fossero equivalenti ad una sentenza emessa da un organismo regolarmente costituito ai sensi dell'art. 15 del documento del CLNAI sulla costituzione dei tribunali di guerra[60]. Non tutti sono d'accordo con questa interpretazione in quanto, nell'occasione, mancava la presenza di un magistrato e di un commissario di guerra[61]. Dell'intera questione si occupò anche la magistratura penale ordinaria, investita dal giudice civile, cui si erano rivolti i familiari dei Petacci e di Pietro Calistri per risarcimento danni. Nei confronti di Audisio, all'epoca parlamentare, l'apposita Giunta concesse l'autorizzazione a procedere. Il processo si chiuse definitivamente il 7 luglio 1967, quando il giudice istruttore assolse il "colonnello Valerio" dall'accusa di omicidio volontario pluriaggravato, appropriazione indebita e vilipendio di cadavere, perché i fatti erano avvenuti nel corso di una azione di guerra partigiana per la necessità di lotta contro i tedeschi ed i fascisti nel periodo della occupazione nemica e come tali non furono ritenuti punibili[62].

L'ipotesi inglese

Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi la voce Carteggio Churchill-Mussolini.

La prima pagina dell'edizione mediterranea del 1 Maggio di Stars and Stripes, giornale delle forze armate statunitensi, che riporta la notizia della morte di Mussolini, con la fotografia del suo cadavere appoggiato su quello della Petacci, con il titolo di "How a dictator dies" (Come muore un dittatore)[63]
Contatti segreti tra il duce ed emissari britannici erano avvenuti a Porto Ceresio (VA), presso il confine svizzero, il 21 settembre 1944 e il 21 gennaio 1945[64][65]; inoltre, il testo delle intercettazioni telefoniche effettuate dai servizi segreti tedeschi a Salò, sulle conversazioni di Mussolini[66], suggeriscono l'esistenza di possibili accordi segreti e di uno scambio di lettere tra il dittatore italiano e il Primo ministro inglese Winston Churchill, anche se è ancora aleatorio definire il contenuto di tale carteggio. Il 27 aprile 1945, al momento della sua cattura, secondo le testimonianze di coloro che hanno dichiarato di averle ispezionate in quei giorni (partigiani, funzionari etc.) Mussolini aveva con sé una borsa piena di documenti[26] contenente, tra l'altro, parte della sua corrispondenza con Churchill[67][68], ma di cui non è stata accertata la datazione. Nell’immediato dopoguerra, Churchill e i servizi segreti britannici, peraltro, si sarebbero mossi per recuperare tutte le copie di tale carteggio[69].
Alla scomparsa successiva all'arresto di Mussolini di tali documenti particolarmente segreti, divenuti noti come il "carteggio Churchill-Mussolini", si ricollegherebbe una versione sull'uccisione del capo del fascismo di cui al memoriale dell’ex comandante della divisione partigiana formata dalla 111ª, 112ª e 113ª Brigata Garibaldi, Bruno Giovanni Lonati “Giacomo”[70]. In tale pubblicazione, uscita nell'autunno 1994 quasi cinquant’anni dopo i fatti, l'autore scrive di essere stato l’autore dell’uccisione di Mussolini, il 28 aprile 1945, poco dopo le ore 11, in una stradina laterale di fronte casa De Maria, a Bonzanigo di Mezzegra, nell’ambito di una missione segreta diretta da un agente inglese. Lo scopo della missione sarebbe stato quello di impedire la diffusione del contenuto del carteggio, recuperandolo e sopprimendo Mussolini e Claretta Petacci, essendo quest’ultima perfettamente informata sull'esistenza di tali rapporti.
In base a tale versione dei fatti, Lonati sarebbe stato contattato dal un agente inglese il giorno precedente a Milano alle ore 16 e, per lo svolgimento della missione, avrebbe costituito una squadra composta da altri tre partigiani. Il “commando” sarebbe stato messo a conoscenza del luogo esatto ove si trovavano i prigionieri, intorno alle ore otto del mattino del giorno 28, grazie a un altro agente, detto “l’alpino”, posizionato a Tremezzo. Dopo una sparatoria per superare un posto di blocco nei pressi di Argegno, ove uno dei tre partigiani del “commando” avrebbe perso la vita, la squadra sarebbe giunta a Bonzanigo e avrebbe avuto facilmente ragione dei guardiani della coppia. L’esecuzione sarebbe stata effettuata con mitra Sten. Il carteggio Churchill-Mussolini non poté essere recuperato, ma, dopo aver effettuato alcune foto ai cadaveri, l’agente inglese avrebbe concordato il silenzio di Lonati e dei due partigiani superstiti per altri cinquant’anni. Per tale motivo Lonati avrebbe scritto il suo memoriale solo nel 1994. Nel frattempo, nel 1982, Lonati si sarebbe recato dal console inglese a Milano, il quale gli avrebbe anche mostrato le foto scattate a suo tempo dall’agente segreto “John” e avrebbe approvato il testo di una dichiarazione[71]da spedire a Lonati allo scadere dei cinquant’anni, a conferma di tale versione dei fatti.[72]
Tale versione è stata accreditata da Peter Tompkins[73], scrittore ed ex agente segreto americano e dallo storico Luciano Garibaldi[74].
Questa ricostruzione è avvalorata dalle seguenti circostanze:
  • È documentato da registrazioni telefoniche e dalla corrispondenza intercorsa tra Mussolini e la Petacci, che quest’ultima era effettivamente al corrente dei contatti tra Churchill ed il capo del fascismo e del carteggio segreto[75].
  • È stata individuata la presenza in loco, ai primi di maggio del 1945, di un misterioso agente in uniforme da alpino, sicuramente in contatto con spie inglesi e probabilmente anche con la partigiana Giuseppina Tuissi “Gianna”[76], una delle poche persone a conoscenza della prigione di Mussolini e della Petacci, prima dell’esecuzione.
  • È stato effettivamente testimoniato il verificarsi di una sparatoria con morti tra un posto di blocco di partigiani e una macchina, ad Argegno, la mattina del 28 aprile[77].
  • L’orario antimeridiano dell’uccisione, secondo la versione Lonati, è coerente con la circostanza, rilevata in sede di autopsia, che lo stomaco di Mussolini fosse privo di resti di cibo[78].
  • La testimonianza di Dorina Mazzola, che ha dichiarato che Mussolini e la Petacci furono uccisi a Bonzanigo e non a Giulino di Mezzegra in orario antimeridiano del 28 aprile 1945 è abbastanza coerente, anche se non coincide perfettamente, con quanto affermato da Lonati. La Mazzola ricordava anche un uomo che aveva a tracolla “una lussuosa macchina fotografica”[79].
Luigi Longo, comandante in capo di tutte le brigate Garibaldi, secondo Tompkins, sarebbe giunto sul posto subito dopo la duplice uccisione, avrebbe architettato una “finta fucilazione” e la versione dell'uccisione “per errore” della Petacci, per poi legare al segreto per cinquant’anni tutti i partigiani presenti[80]. A tal proposito non si può non tener conto della ricostruzione di Urbano Lazzaro, il partigiano “Bill”, vice commissario politico della colonna partigiana autrice della cattura, nella quale si dichiara che il personaggio presentatosi a Dongo il 28 aprile 1945, con il nome di battaglia di “Colonnello Valerio” fosse proprio Luigi Longo e non Walter Audisio, come comunemente si sostiene[81].
La versione di Bruno Lonati è tuttavia contraddetta, oltre che dalla versione ufficiale dei fatti, di cui è cenno in premessa:
  • Dall’autopsia effettuata a Milano il 30 aprile 1945, dal prof. Caio Mario Cattabeni, che ha rilevato almeno sette fori di entrata di proiettili sul corpo di Benito Mussolini[78], mentre Lonati ha affermato di aver sparato non più di quattro o cinque colpi[82].
  • Dagli ulteriori esami effettuati dal prof. Pierluigi Baima Bollone sulle fotografie dei cadaveri sospesi al traliccio di Piazzale Loreto, che attesterebbero non solo l’esistenza di una raffica di mitra sui due corpi, ma anche l’effettuazione del colpo di grazia a mezzo pistola[83].
  • Dal rilevamento di due proiettili da pistola, calibro 9 mm corto, nel corpo di Claretta Petacci, nel corso della riesumazione effettuata il 12 aprile 1947[58], incompatibile con i proiettili del mitra Sten calibro 9 mm lungo, che il Lonati asserisce fosse imbracciato dall’esecutore dell’omicidio[82].
  • Dalla circostanza che, in realtà, i partigiani incaricati a sorvegliare Mussolini e la Petacci, in casa De Maria furono soltanto due ("Lino" e "Sandrino), mentre invece Lonati racconta che il suo "commando" ne avrebbe immobilizzati tre, prima di effettuare la duplice uccisione;
  • Dal parere dell’anatomopatologo Luigi Baima Bollone che non ritiene decisiva la circostanza della mancanza di cibo nello stomaco di Mussolini, in rapporto alla determinazione dell’orario dell’esecuzione[58].
  • Dal silenzio dell’ambasciata britannica più volte interessata dallo stesso Lonati per la conferma della sua versione, una volta scaduti i cinquant’anni dai fatti.
  • Dal rifiuto di rilasciare dichiarazioni a suo favore, da parte dell’unico partigiano del "commando", ancora vivente all’epoca della trasmissione trasmessa dal canale televisivo "Rai Tre" nel programma "Enigma", del 31 gennaio 2003.
  • Dal responso negativo della “macchina della verità”, cui si è sottoposto il Lonati stesso nel corso della trasmissione suddetta.

Diverse versioni

Oltre alla versione storica e all'ipotesi inglese, sono sorte, negli anni, differenti versioni della duplice uccisione.
  • Il 22 ottobre 1945, ancor prima che si fosse formata la "versione storica" dei fatti, il partigiano Guglielmo Cantoni "Sandrino", uno dei due militanti che il 28 aprile 1945 avevano piantonato Mussolini e la Petacci in casa De Maria, rilasciava un'intervista al Corriere d'Informazione. "Sandrino" dichiarava alla stampa di aver seguito a piedi la squadra degli esecutori e delle vittime della fucilazione, e di esser giunto nei pressi di Villa Belmonte in tempo per vedere “Valerio” sparare un paio di colpi di pistola contro l’ex duce, il quale era rimasto inaspettatamente in piedi; la raffica di mitra, che, secondo l’intervistato, avrebbe investito sia Mussolini che la Petacci, sarebbe stata inflitta da Michele Moretti, intervenuto subito per risolvere l’impasse. Successivamente lo stesso "Valerio" avrebbe sparato altri due colpi di pistola, sul corpo dell’uomo, che si muoveva ancora[45].
  • Altre versioni alternative sono frutto dell’attestazione del prof. Cattabeni, in sede di necroscopia del 30 aprile 1945, relativa all’assenza di residui di cibo nello stomaco di Mussolini[78]; da ciò la deduzione che il duplice omicidio si sarebbe verificato in orario antimeridiano e l’ipotesi che poco dopo le ore 16.00 del 28 aprile si sarebbe svolta una “finta fucilazione” di due cadaveri. Il primo studioso a delineare una simile tesi è stato Franco Bandini, nel 1978[84].
  • Nel 1993, lo storico Alessandro Zanella, sostenne che la duplice uccisione sia avvenuta intorno alle ore 5.30 del 28 aprile, all'interno o nei paraggi di casa De Maria, ad opera di Luigi Canali "Neri", Michele Moretti "Gatti" e Giuseppe Frangi "Lino"[85]. Quest'ultima versione si avvale di uno studio prodotto dal dr. Aldo Alessiani, medico giudiziario della magistratura di Roma, nel quale si attesta, in base all’esame delle foto scattate dalle ore 11.00 alle 14.00 circa del 29 aprile sui cadaveri appesi al traliccio di Piazzale Loreto, che Mussolini e la Petacci fossero morti da circa trentasei ore, e cioè ben prima delle ore 16.00 del 28 aprile 1945[86]. Anche la cosiddetta “pista inglese” di cui è cenno nella precedente sezione, presuppone un’esecuzione in orario antimeridiano, anche se intorno alle 11.00.
  • Nel 1996 si è affiancata a quella del Bandini e di Zanella, un'altra ipotesi di uccisione antimeridiana, proposta dal giornalista ed ex senatore del MSI Giorgio Pisanò, a seguito delle dichiarazioni rilasciate da Dorina Mazzola, vicina di casa dei De Maria, all'epoca dei fatti diciannovenne[87]. Quest’ultima avrebbe testimoniato di aver assistito, sia pur da distanza di circa duecento metri, ad un diverbio con urla e spari verso le 10.00 del mattino del 28 aprile, provenienti dal cortile di casa De Maria, nel quale avrebbe notato una persona calva e in maglietta che camminava a fatica nel cortile; subito dopo la Mazzola avrebbe sentito una raffica di mitra e un po' di silenzio. Inoltre, verso le ore 12.00, la Mazzola avrebbe assistito ad una scena analoga, ove, però, l’uomo calvo era trascinato a spalla da due persone, e, contemporaneamente si sarebbe udita prima una donna in lacrime, poi un’ultima raffica di mitra[88].
  • Nel 2005, Pierluigi Baima Bollone, ordinario di Medicina legale nell'Università di Torino, effettuò un riesame della necroscopia del 1945 sul cadavere dell’ex duce, e uno studio computerizzato sulle fotografie e sulle riprese cinematografiche dei corpi sospesi al traliccio di Piazzale Loreto e sul tavolo dell’obitorio di Milano, sulle armi impiegate e i bossoli rinvenuti, nonché sulle cartelle cliniche di Mussolini in vita.
Tale indagine ha condotto l’anatomopatologo torinese ad affermare che la circostanza della mancanza di cibo nello stomaco di Mussolini non sarebbe determinante in rapporto alla individuazione dell’orario dell’uccisione, in quanto risulta senza ombra di dubbio che il capo del fascismo fosse sofferente di ulcera ed osservasse da anni una dieta tale da permettere al suo stomaco di svuotarsi del cibo in un paio d’ore circa. Inoltre il docente universitario smentisce lo studio del dr. Alessiani, sostenendo che al momento dello scatto delle foto e delle riprese in Piazzale Loreto, la rigidità del corpo dell’ex duce fosse ancora nella fase iniziale, a dimostrazione di un orario del decesso non anteriore alle 16.00-16.30 del giorno precedente, coincidente con quello della versione ufficiale fornita da Walter Audisio.
Inoltre, sulla base del posizionamento dei fori di entrata e di uscita nei due cadaveri, rilevata in base alle foto delle salme e alla necroscopia Cattabeni, il prof. Baima Bollone riterrebbe logico presumere che “l’azione determinante i due decessi sia stata effettuata da due tiratori, dei quali il primo posto frontalmente al bersaglio costituito dalla Petacci e da Mussolini, affiancati e leggermente sopravanzatisi l’una all’altro, e il secondo lateralmente”. Quest’ultima asserzione, pur non entrando nel merito dell'identificazione dei due tiratori, sembra avvalorare la meccanica della vicenda riportata nelle dichiarazioni del partigiano “Sandrino” al Corriere d'Informazione, nel 1945[89].
  • Infine, nel 2009, i ricercatori Cavalleri, Giannantoni e Cereghino, effettuarono un attento esame dei documenti dei servizi segreti americani degli anni 1945 e 1946, desecretati dall'amministrazione Clinton. Dall'esame dei tre ricercatori sono emersi due rapporti segreti dell'agente dell'OSS Valerian Lada-Mokarski, il primo datato ai primi di maggio del 1945 ed il secondo il 30 maggio 1945. L'agente americano, dopo aver ascoltato il resoconto di alcuni "testimoni oculari"[90], indica esattamente orario e luogo della fucilazione (poco dopo le ore 16.00 del 28 aprile 1945, davanti a Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra) esattamente coincidenti con quelli derivati dalla versione storica. I due rapporti, peraltro, non sono perfettamente chiari per quanto riguarda l'identificazione degli autori.
Secondo il rapporto del 30 maggio - più esauriente del precedente - la fucilazione sarebbe stata condotta da tre uomini: un "capo partigiano", (che gli autori della ricerca hanno identificato in Aldo Lampredi), un uomo in vestito civile (identificato dall'agente OSS nel "colonnello Valerio"), e un uomo in divisa da partigiano (Michele Moretti). I colpi sparati dal "civile", armato di revolver, avrebbero raggiunto obliquamente Mussolini sulla schiena [91] e, subito dopo, l'uomo in divisa da partigiano gli avrebbe sparato direttamente al petto con un mitra. Poi sarebbe stata la volta della Petacci, raggiunta da diversi colpi al petto. Il precedente rapporto dei primi di maggio, tuttavia, non descrive il "colonello Valerio" come indossante un vestito civile, ma una divisa da partigiano color mattone con i gradi di colonnello sulla bustina. Ciò è conforme con tutte le descrizioni di Audisio-"Valerio", comunemente fornite dai testimoni.
Il rapporto del 30 maggio, inoltre, conclude che, in un secondo momento, sarebbe intervenuto nell'esecuzione un partigiano locale (identificato in Luigi Canali, accreditato dall'agente statunitense come uno dei suoi confidenti), il quale, dopo esser stato fatto avvicinare dal "capo partigiano", avrebbe scaricato due ultimi colpi con la sua pistola sul corpo del duce, perché ancora vivo[92]. L'introduzione di un terzo "tiratore" nella vicenda, contrasta con la meccanica dell'azione emersa dai rilievi del prof. Baima Bollone[89].

Ipotesi alternative sull'identità di "Valerio"

  • Alcuni autori[93][94]) hanno identificato la figura del "colonnello Valerio" con Luigi Longo "Gallo", comandante generale delle Brigate Garibaldi e futuro segretario nazionale del P.C.I.. In realtà la presenza di Longo a Mezzegra al momento della fucilazione di Mussolini, avvenuta intorno alle ore 16.00, deve escludersi, dato che, come è confermato dalle numerose fotografie dell'evento che lo ritraggono[95][96], nel corso del pomeriggio del 28 aprile 1945, il medesimo era presente in Piazza Duomo a Milano alla manifestazione conclusiva della grande sfilata, partita alle ore 15.00, dei garibaldini della Valsesia e della Valdossola guidati da Cino Moscatelli.
La sostenibilità dell'identificazione di "Valerio" con Longo, pertanto, è possibile solo anticipando la fucilazione nella tarda mattinata del 28 aprile e introducendo l'ulteriore tesi di una seconda fucilazione dei cadaveri nel pomeriggio; anche in tal caso, inoltre, non sarebbe chiara l'identità dell'autore della fucilazione delle 16.00-16.30 e, soprattutto, di colui che, tra le 17.00 e le 18.00 del pomeriggio medesimo si è ripresentato a Dongo, come "colonnello Valerio", per fucilare i quindici prigionieri catturati insieme all'ex duce e alla Petacci. Né si comprende per quale motivo il partigiano Urbano Lazzaro "Bill", colui che arrestò Mussolini il pomeriggio del 27 aprile, si sia pronunciato a favore dell'identificazione di "Valerio" con Longo soltanto a partire dal 1993[97] e non abbia testimoniato ciò al processo del 1957, di cui è cenno in premessa.
All'udienza del 24 maggio 1957, inoltre, i componenti del CLN Oscar Sforni e Cosimo De Angelis, hanno confermato che a Como, nella tarda mattinata del 28 aprile 1945, Walter Audisio si era presentato come "colonnello Valerio", e che poi lo seguirono a Dongo, dove lo raggiunsero intorno alle 14.00-14.10[98]. Anche anticipando la fucilazione di Mussolini - dunque - nella tarda mattinata del 28 aprile il "colonnello Valerio" non poteva trovarsi a Mezzegra.
  • Nell'intervista al Corriere d'Informazione del 22 ottobre 1945, il partigiano Guglielmo Cantoni "Sandrino", dichiarò di aver visto il “colonnello Valerio” sparare a Benito Mussolini con una pistola, senza rivelarne l’identità [45]. E’ appurato, peraltro, che, al momento dell’esecuzione, il possessore di un arma simile – ed esattamente una pistola Beretta modello 1934, calibro 9 mm[53] fosse Aldo Lampredi e non Walter Audisio, che invece imbracciava un mitra Thompson [54].
Anche il rapporto segreto datato 30 maggio 1945 dell'agente dell'OSS Valerian Lada-Mokarski, sembrerebbe indicare il “colonnello Valerio” nella persona di Aldo Lampredi, raffigurandolo in un uomo in vestito civile, armato di revolver. Aldo Lampredi, infatti – come riferiscono concordemente le testimonianze raccolte a Milano, a Como e a Dongo - il 28 aprile 1945 indossava un impermeabile bianco, mentre Walter Audisio aveva indosso una divisa da partigiano color kaki o rosso-mattone con i gradi di colonnello.
L’ipotesi che a uccidere Mussolini sia stato Aldo Lampredi e non Walter Audisio è stata addotta nel 1997 da Massimo Caprara, nel volume “Quando le Botteghe erano oscure”, pur senza citare il nome di battaglia dell’autore dell’esecuzione. Caprara, già segretario particolare di Palmiro Togliatti e in seguito uscito dal PCI per fondare il gruppo del “Manifesto”, dichiara di aver raccolto, in proposito, le confidenze dello stesso Togliatti e di Celeste Negarville, all’epoca direttore dell’Unità. A domanda, sembra che Togliatti abbia risposto al suo segretario: “No, non è lui (Audisio, n.d.r.). Abbiamo deciso di coprire l’autore dell’esecuzione di Mussolini. L’uomo che ha sparato è Lampredi” [99].
Successivamente Negarville confermò l’attribuzione dell’esecuzione a Lampredi, svelando anche i retroscena dell’insabbiamento: “(Togliatti) si premurò d’una cosa soprattutto: proteggere il funzionario kominternista che è Lampredi. Non solo sottraendolo alla curiosità della gente, ma salvandolo da una auto-esaltazione che avrebbe potuto travolgerlo: sentirsi all’improvviso il vendicatore-eroe, dopo una vita grigia e ingrata. Lui ha sparato a Mussolini. Con la Petacci non c’entra. Si limitò a prelevare Mussolini da casa De Maria e a portarlo con lo stivale rotto fino al cancello di Villa Belmonte. Queste cose le riferì a Luigi Longo il responsabile di partito per tutta l’operazione: Dante Gorreri[100].

La fucilazione dei gerarchi


Elenco dei gerarchi fucilati, firmato da "Magnoli" (Walter Audisio) e "Guido Conti" (Aldo Lampredi)

I gerarchi allineati sul lungolago ricevono il conforto religioso prima della fucilazione
Partito da Giulino, verso le ore 17:00 del 28 aprile Audisio è a Dongo per dirigere la fucilazione degli altri gerarchi fascisti che nel frattempo erano stati radunati nel municipio. I nominativi erano stati indicati da "Valerio" stesso prima di partire per la Tremezzina osservando la lista dei prigionieri italiani catturati dalla 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici". Si tratta di:
Ad essi va aggiunto anche Marcello Petacci, che al momento dell'arresto si spacciava per console spagnolo. Audisio, conoscendo il castigliano, aveva smascherato subito il millantatore e, scambiandolo per Vittorio Mussolini aveva ordinato la sua fucilazione. Però Urbano Lazzaro "Bill", scoprendo finalmente la sua vera identità, l'aveva sospesa.
Venuto a conoscenza dei modi sbrigativi del Colonnello Valerio, il sindaco del paese avvocato Giuseppe Rubini, figlio di Giulio Rubini, protesta fortemente opponendosi e cercando di porre il veto. Non riuscendo ad ottenere risposta dà le dimissioni, ritira dalla finestra del municipio la bandiera esposta e si rinchiude in casa.
Alle 17.48 vengono allineati contro la ringhiera metallica del lungolago del paese, con il viso verso il lago e le spalle al plotone d'esecuzione e, dopo aver ricevuto una comune assoluzione da padre Ferrari Accursio del vicino santuario francescano della "Madonna delle lacrime", a cui "Valerio" ha concesso tre minuti per fornire i conforti religiosi ai condannati, vengono giustiziati.
Viene respinta la richiesta di Barracu di non essere fucilato alla schiena, il plotone di esecuzione è comandato da Alfredo Mordini "Riccardo", già combattente garibaldino nella guerra civile spagnola[101].
Il numero dei fucilati eguaglia quello dei partigiani, che, per rappresaglia, il 10 agosto 1944, i tedeschi avevano fatto fucilare dai fascisti ed esporre al pubblico in Piazzale Loreto a Milano, ciò dimostrerebbe l'intenzione di voler vendicare quella strage.
Finito il compito del plotone, da ogni parte si comincia a fare fuoco sui corpi a terra e per aria, un paio di minuti di baccano infernale in una travolgente follia collettiva: spari, urla, fuggi fuggi, odore di zolfo e di sangue, qualcuno rimane ferito, poi, nel silenzio, gli spari dei colpi di grazia[102].
Marcello Petacci è stato fucilato dopo gli altri, perché i gerarchi non lo consideravano dei loro. Anzi, al momento dell'allineamento, lo insultarono dicendo che era un "ruffiano"[103] e chiesero un'esecuzione separata, richiesta che venne accettata. Però, arrivato il suo turno, riuscì a fuggire per le viuzze del paese e a gettarsi poi nelle fredde acque del lago dove venne raggiunto da una pioggia di proiettili che lo finirono.

Traversie delle salme

Piazzale Loreto


I corpi di Mussolini e Claretta Petacci adagiati a terra in piazzale Loreto, è visibile il gagliardetto posto fra le mani di Mussolini

I corpi di Mussolini (secondo da sinistra) e di Petacci (riconoscibile dalla gonna) esposti a Piazzale Loreto. Il primo cadavere a sinistra è di Paolo Zerbino. Gli ultimi due a destra sono Pavolini e Starace.

Fotografia di Starace, posto di schiena al plotone d'esecuzione, pochi istanti prima della morte.

Il distributore visto dalla prospettiva in cui si trovò Starace quando venne fucilato
A Dongo tutti i 16 cadaveri dei fucilati vengono caricati su un camion, sopra di loro viene steso un telo su cui siederanno i partigiani durante il viaggio. Il veicolo parte per Milano verso le 18:00, fermandosi prima ad Azzano per recuperare anche i corpi di Mussolini e della Petacci lasciati nel frattempo sotto la pioggia[104]. Durante il viaggio di ritorno la colonna è costretta a fermarsi in diversi posti di blocco partigiani che creano diversi problemi: in particolare a Milano, in via Fabio Filzi (vicino gli edifici della Pirelli) durante un controllo operato da una formazione delle Brigate Garibaldi vi sono momenti di tensione quando i partigiani a bordo del camion si rifiutano di mostrare i corpi trasportati. Le due formazioni armate si fronteggiano sino all'intervento del comando generale che permette il proseguimento della colonna alla vicina destinazione finale.
Alle 3:40 di domenica 29 aprile la colonna giunge in Piazzale Loreto, meta non casuale o improvvisata, ma a lungo meditata[105] per il suo valore simbolico. Qui Audisio decide di scaricare i cadaveri a terra, proprio dove le vittime della strage del 10 agosto 1944 erano state abbandonate in custodia a militi fascisti, che li avevano dileggiati e lasciati esposti al sole per l'intera giornata, impedendo ai familiari di raccogliere i loro resti.
In piazzale Loreto furono portati diciotto cadaveri: Benito Mussolini, Clara Petacci e i sedici giustiziati a Dongo.
Verso le 7 del mattino, mentre i partigiani lasciati di guardia alle salme ancora dormivano, i primi passanti si accorsero dei cadaveri. Complice un passaparola che in poco tempo attraversò tutta Milano, la piazza si riempì velocemente. Non era stata prevista alcuna misura di contenimento: nella calca le prime file di folla vennero spinte verso i cadaveri, calpestandoli e li sfigurandoli. Molti insultavano, dileggiavano, sputavano e prendevano a calci i cadaveri, si compivano gesti di bestialità. Una donna sparò al cadavere di Mussolini cinque colpi di pistola per vendicare i propri cinque figli morti in guerra[106][107]. Mentre sui cadaveri venivano gettati ortaggi, il misero pasto di cinque anni di guerra, a Mussolini per dileggio venne messo in mano un gagliardetto fascista. Qualcuno orinò sul cadavere della Petacci, altri compirono gesti ancora più avvilenti. Alle 11 la situazione non era più governabile neanche con scariche di mitra. Una squadra di Vigili del Fuoco giunta con un'autobotte lavò abbondantemente i cadaveri imbrattati di sangue, sputi, orina e ortaggi.
A quel punto gli stessi pompieri trassero via dal centro della piazza i sette cadaveri più noti, issandoli per i piedi alla pensilina del distributore di carburante Standard Oil (poi Esso) che si trovava all'angolo fra la piazza e corso Buenos Aires e lasciandoli lì appesi a testa in giù[108][106][109]. Si trattava dei corpi di Mussolini, di Claretta Petacci -alla quale, essendo privata delle mutande, venne dapprima fermata la gonna con una spilla ed infine assicurata meglio con la cintura che il cappellano partigiano don Pollarolo si sfilò appositamente-[110], di Alessandro Pavolini, di Paolo Zerbino, di Ferdinando Mezzasoma, di Marcello Petacci e di Francesco Maria Barracu[111] il cui cadavere però cade subito a terra e verrà sostituito con quello di Achille Starace[112].
Arrivarono sul luogo anche numerosi fotografi e nel corso della mattinata arrivò anche una pattuglia di soldati americani assieme ad una troupe di cineoperatori militari che filmò la scena, che successivamente sarà inserita in uno dei combat film prodotti nel corso del conflitto; un altro filmato venne girato da Carlo Nebbiolo, presente sul luogo assieme al fotografo Fedele Toscani[113] dell'agenzia Publifoto, la pellicola del suo filmato fu sequestrata dalle truppe alleate e restituita in seguito con vistosi tagli, tra cui l'eliminazione della sequenza sulla fucilazione di Starace[114]. Le numerose fotografie scattate in quelle ore animarono, nei giorni seguenti, un fiorente mercato venendo vendute come un ricercato "souvenir di un momento vissuto", bloccato dopo due settimane dal nuovo prefetto cittadino che ordinò l'immediato sequestro delle fotografie dalle cartolerie e la loro rimozione da ogni luogo pubblico[115].
Verso mezzogiorno, con una camionetta, viene condotto sul luogo anche Achille Starace, ex segretario generale del Partito nazionale fascista, arrestato per le vie di Milano in zona ticinese, frettolosamente giudicato in un'aula del vicino Politecnico, e fucilato, da un plotone improvvisato di partigiani,[116] alla schiena sul marciapiede a lato del distributore ove erano stati appesi gli altri cadaveri.
Nel primo pomeriggio una squadra di partigiani del distaccamento "Canevari" della brigata "Crespi", su ordine del comando, entrò in piazza e rimosse i cadaveri[117] trasportandoli nel vicino obitorio di piazzale Gorini.
In serata, il CLNAI riunito emanava una comunicato con il quale si assumeva la responsabilità dell'esecuzione di Mussolini quale conclusione necessaria di una lotta insurrezionale. La massima istituzione resistenziale affermava la volontà di rompere con il fascismo, segnando la fine di un periodo storico di vergogne e di delitti ed inaugurando l'avvento di una nuova Italia, fondata sull'alleanza delle forze che avevano preso parte alla lotta contro la dittatura[118].

L'autopsia di Mussolini


Richiesta del comando USA di ricevere un frammento del cervello (in inglese e italiano) con risposta positiva, ricevuta della consegna e richiesta del Col. Poletti delle copie dei verbali

Mussolini e la Petacci all'obitorio, prima dell'autopsia
Il giorno seguente alle ore 7,30 presso il civico obitorio dell'Istituto di medicina legale dell'Università di Milano in via Ponzio il professor Mario Cattabeni[119] sotto la sorveglianza del generale medico "Guido"[120] effettuò l'autopsia sul solo corpo di Mussolini[121]. Il riscontro diagnostico riscontrò sul cadavere sette fori di proiettile in entrata e sette fori in uscita sicuramente prodotti in vita e sei fori successivi alla morte ed individuò come causa mortis la recisione dell'aorta da parte di un proiettile. L'autopsia venne eseguita, scrisse Cattabeni, "in condizioni di tempo e di luogo del tutto eccezionali" entro "una sala anatomica dove facevano irruzione ogni tanto, per l'assenza di un servizio armato d'ordine pubblico, giornalisti, partigiani e popolo".
Prima e dopo l'autopsia furono scattate numerose fotografie, sia mettendo macabramente in posa i cadaveri di Mussolini a Petacci abbracciati, sia dell'equipe forense a fianco del cadavere, immagini del cadavere svestito col torace ricucito a fine autopsia e infine dei corpi deposti entro le casse di legno usate come bare.
Qualche giorno dopo l'autopsia, il 4 maggio le autorità militari alleati richiesero al Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, a titolo di favore, un campione di tessuto cerebrale del defunto da inviare a Wilfred Overholser direttore dell'ospedale psichiatrico St. Elizabeth di Washington d.c., garantendo che verrà utilizzato per scopi scientifici ed i risultati della sua analisi non saranno soggetti a pubblicazione[122], lo scopo di "medical intelligence" escludente pubblicazioni sarà ribadito nella ricevuta rilasciata il 24 maggio alla consegna del campione.
Il 9 giugno il colonnello Poletti richiese infine due copie autenticate del referto dell'autopsia da consegnare al console americano a Lugano, incaricato di redigere un rapporto ufficiale sugli ultimi giorni di vita di Mussolini.

La tomba violata di Mussolini, sono visibili gli attrezzi: badile, piccone e piede di porco abbandonati in loco dai trafugatori

Interno della cripta Mussolini nel cimitero di San Cassiano a Predappio
Nel novembre 2009 alcuni vetrini istologici con sezioni del cervello, vennero posti in vendita su E-bay, con una base d'asta di 15000 euro, da un collezionista italiano di cimeli storici, che li aveva avuti in dono da un tecnico analista, assistente di Cattabeni incaricato di preparare i reperti nel maggio 1945[123]. L'offerta di vendita, fu ritirata dal sito dopo poche ore, in quanto contraria alla policy del sito che vieta la vendita di materiale organico umano[124].

La sepoltura di Mussolini

La salma di Mussolini fu seppellita anonima nel cimitero Maggiore di Milano. Il tumulo aveva il numero 384 e sebbene non vi fosse stato apposto alcun nome, proprio per evitare di far identificare il cadavere, ben presto la gente individuò il posto, che divenne meta di molti curiosi e di qualche commosso nostalgico.
La notte tra il 22 aprile e il 23 aprile 1946, all'approssimarsi del primo anniversario della sua morte, tre fascisti, Mauro Rana, Antonio Parozzi e Domenico Leccisi, facenti parte del Partito Democratico Fascista, ne trafugarono la salma. In due lettere all'Avanti! e all'Unità il gruppo comunicò che il partito fascista, non avendo ottenuto risposta alle richieste di una sepoltura di Mussolini, aveva deciso di prendere in custodia la salma. Si scatenò la caccia alla salma, che la voce popolare chiamò il salmone[125].
Si sospettò anche che fosse stata trafugata allo scopo di richiedere un riscatto, quantunque i familiari di Mussolini, i più probabili diretti interessati, erano, ovviamente, di impervia rintracciabilità e comunque non disponevano di agi tali da giustificare l'eventuale estorsione. Il 7 maggio, dopo varie peripezie, i trafugatori decisero di consegnarla ai frati minori dell'Angelicum di Milano nelle mani dei padri Alberto Parini ed Enrico Zucca[125].
La salma rimase nascosta nel convento per qualche tempo fino a che la polizia non venne a sapere tutta la storia dalla fidanzata di un amico di Leccisi. Padre Parini, che inizialmente aveva opposto un labile rifiuto a collaborare adducendo il "segreto confessionale", decise infine di rivelare dove si trovava il corpo solo a patto che gli fosse garantita una sepoltura degna e occulta. Si arrivò ad una soluzione anche grazie all'interessamento di Alcide De Gasperi e del Papa: il 12 agosto 1946 il cadavere venne restituito al questore Vincenzo Agnesina[125], ma si dovette eseguire un ulteriore esame necroscopico per confermare l'identità dei resti[126].
Il 30 agosto 1957, durante il governo Zoli, la cui famiglia era originaria di Predappio, ed il cui governo in parlamento abbisognava dell'appoggio esterno dei deputati missini tra cui il Leccisi, la salma di Mussolini, segretamente conservata nel convento dei Cappuccini di Cerro Maggiore, viene riconsegnata alla vedova che ne aveva richiesta la restituzione alla famiglia più volte nel corso degli anni[127]. In questa occasione anche il cervello che era stato prelevato durante l'autopsia e conservato in formalina nell'Istituto di medicina legale di Milano viene restituito[128].
Tutti i resti furono finalmente seppelliti il 1º settembre, secondo la volontà del defunto, nel cimitero di San Cassiano in Pennino, vicino a Predappio, dove ora si trovano